Artigianato: così il franchising innova e rinnova

L’innovazione passa anche attraverso parole e concetti che sembrano arrivare da un’altra epoca. Per esempio, parlare, oggi, di “artigianato” vuol dire quasi mettersi in contrapposizione con gli strumenti della tecnologia e del web. Da una parte il lavoro “umano”, unico, personalizzato, caldamente professionale. Dall’altro l’automazione fredda, massificata, quasi parassitaria che si ciba della nostra privacy. Pensare questo sarebbe, però, un grosso errore. Perché anche il vasto mondo degli artigiani sta passando attraverso un percorso di rinnovamento di cui il franchising ne è un vettore fondamentale, entrando in una nuova fase che scopriremo solo vivendo, come intonava il cantante. Non parliamo in questo articolo dei casi, pur di eccellenza, della ristorazione in cui, accanto a colossi del cibo, oggi tanti piccoli “Davide” stanno avendo successo grazie a concetti di purezza come quello del cibo fatto in casa, preparato sul momento, a chilometro zero, eccetera. Parliamo dei tanti lavori che sono associati all’idea di artigianato, come quello del fabbro, del falegname, dell’idraulico, del parrucchiere. Ma anche piccole riparazioni, dal telefonino al pc, dalla tapparella alla finestra di casa. In uno studio del 2015 dell’Unione Europea intitolato “Business Innovation Observatory – Collaborative Economy: collaborative production and the maker economy”, si mette in evidenza che il trend occupazionale dell’artigianato e delle professioni basate sul “saper fare con le mani” è in crescita e che l’artigianato tradizionale non è affatto in via di estinzione. Per il Bureau of Labor Statistics degli Stati Uniti l’artigianato e la filiera degli articoli fatti a mano e su misura sono tra le professioni che faranno registrare il maggior incremento occupazionale negli Stati Uniti da oggi al 2024, perché anche “in un mondo sempre più virtuale e digitale, non viene meno la richiesta di prodotti reali e tangibili”.

L’evoluzione

La domanda principale è: perché un artigiano, qualunque cosa faccia, dovrebbe anche solo pensare di affiliarsi a una rete in franchising piuttosto che continuare a fare quello che sa fare in forma indipendente? Cerchiamo, allora, di capire l’importanza del franchising per un artigiano:

  • La rete. Far parte di un network non significa soltanto sostenere dei costi per entrarvi (fee) o per continuare a starci (royalty). Significa godere di economie di scala importanti, anche da punto di vista dei saperi. Il costante scambio informativo con i colleghi aumenta la qualità del lavoro di ognuno, in un costante miglioramento della propria professionalità
  • La promozione. Il compito più arduo per un artigiano, soprattutto in una grande città dove il passaparola è limitato, è quello di farsi conoscere dai suoi clienti. Una rete in franchising permette di accentrare alla casa madre la funzione di contatto e di marketing. Questo fa sì che il singolo artigiano possa godere, per estensione, della fama del marchio e concentrarsi unicamente sul proprio lavoro
  • Customer care. Dall’inglese, “attenzione al consumatore”. Nell’èra di internet, i servizi rivolti ai clienti, soprattutto in fase di post vendita, sono tanto essenziali quanto difficili da erogare per un singolo artigiano. Far parte di una catena strutturata con capacità finanziarie importanti significa anche demandare alla sede centrale tutti quei servizi di customer care necessari anche per azioni di marketing e di fidelizzazione mirati.

I punti caratteristici

Quali sono, invece, le caratteristiche essenziali che l’artigianato deve avere per definirsi tale e che deve amplificare entrando in una rete in franchising? Intanto, diciamolo subito per sgomberare il campo da possibili equivoci. I concetti di artigianato e di affiliazione commerciali non sono termini contradditori, perché la “sacralità” del prodotto o del lavoro “fatto a mano” non viene perso e appiattito all’interno di una rete in franchising.

  • Unicità. È la caratteristica di più “appeal” per un artigiano, poter offrire un prodotto o un servizio estremamente unico. Non è un caso che molte aziende stanno cercando di declinare i prodotti di modo che possano essere unici, inimitabili e introvabili
  • Personalizzazione. Un lavoro o un servizio artigianale è per sua natura personalizzato. Poter continuare a offrire prodotti personali e unici e rimanere sul mercato con una certa competitività, ecco il mix che una rete in franchising può offrire ai singoli artigiani .

Pet business: un mercato da 2 miliardi di euro

Un mercato anticiclico per eccellenza, quello degli animali. Non legato alle mode del momento, impermeabile alle crisi, connesso così intimamente ai desideri e alle passioni di ognuno di noi, il mercato legato ai nostri amici a quattro zampe ha tutte le caratteristiche della buona opportunità di business per chi desidera di mettersi in proprio. Solitamente, i costi di avviamento non sono alti, ponendosi in una fascia inferiore ai 50mila euro, solitamente non sono richieste grandi superfici per i punti vendita, addirittura in alcuni casi nemmeno è previsto una location. A fronte di ciò, come dicevamo, il giro di affari è di quelli importanti e tutte le previsioni indicano dei trend in crescita. Ma partiamo dai numeri.

Quasi 2 miliardi di fatturato

Sono 60 milioni gli animali d’affezione presenti in Italia nel 2016: in media nel nostro Paese vi è un animale domestico per ciascun abitante e 2,3 per ogni famiglia. In Italia è mediamente presente un gatto ogni 3,5 famiglie e un cane ogni 3,7 famiglie. Per l’88 per cento dei proprietari i cani e i gatti sono a tutti gli effetti componenti della famiglia. Le famiglie con un solo componente che vivono con un animale d’affezione sono passate dall’8,4 all’11,1 per totale del totale. Nello stesso periodo, i proprietari over 65 hanno accresciuto la loro presenza dal 21,5 al 23,7 per totale.
Nel 2016, il mercato dei prodotti per l’alimentazione dei cani e gatti in Italia ha sviluppato un giro d’affari di 1.971 milioni di euro.  Si conferma un trend positivo, con un incremento del fatturato del +2,7 per cento rispetto allo scorso anno e una crescita dei volumi di +1,3 per cento: il mercato continua a mostrare un tasso di crescita a valore superiore a quello del Largo Consumo Confezionato. Nel 2016, tutti i principali segmenti degli alimenti per cani e gatti (umido, secco, snack & treat) registrano una crescita a valore. Sono quasi 7 milioni i cani, e quasi 7.500.000 i gatti. Secondo la Federazione europea del pet food, gli animali più numerosi nell’Unione Europea sono i gatti: più di 70 milioni di esemplari, circa il 35 per cento del totale. I cani sono più di 62 milioni, il 31 per cento. La Francia è il paese con il maggior numero di felini: 12,6 milioni, record assoluto rispetto agli altri Paesi comunitari più popolati dai gatti, ovvero Germania (11,8 milioni), Regno Unito e Italia, che si attestano entrambi intorno ai 7,4 milioni. Per quanto riguarda i cani, invece, il Paese che ne ospita di più è il Regno Unito con 8,5 milioni di esemplari, seguito a breve distanza da Francia, Italia e Germania (rispettivamente 7,3 milioni, 7 e 6,8 milioni di cani). La Russia detiene comunque i primati per i cani e per i gatti. Si stima una popolazione felina di 21,7 milioni e di quasi 16 milioni di cani. Il 68,5 per cento dei proprietari di pet italiani è donna, il 31,5 per cento è uomo. Negli ultimi dieci anni la percentuale di uomini proprietari di animali è nettamente aumentata, passando da 24,7 per cento al 31,5 per cento. L’età media è 53 anni: il 23,7 per cento ha un’età compresa tra i 45 e i 54 anni, mentre il 22,5 per cento tra 55 e 64 anni. Ne deriva che quasi la metà dei pet owner ha tra i 45 e 64 anni. Il 30 per cento ha meno di 45 anni, il 23 per cento è ultrasessantacinquenne.

Cosa mangiano?
Secondo il rapporto Zoomark 2017, l’alimentazione industriale risulta essere una scelta premiante: l’85 per cento dei veterinari la ritiene migliore rispetto alle razioni casalinghe. “Nei proprietari si è ormai consolidata una spiccata attenzione all’aspetto nutrizionale e salutistico dei pet: per i proprietari è importante dar da mangiare i migliori alimenti disponibili“. Attualmente, gli alimenti industriali rappresentano di gran lunga la prima modalità di alimentazione dei pet (77%), oltretutto in crescita rispetto al passato (64%). Gli avanzi della tavola e i pasti cucinati appositamente risultano in calo, rispettivamente dal 18 all’11 per cento e dal 17 all’11 per cento. Sempre secondo il rapporto qui citato, “il pet food industriale non sembra connotarsi come una tendenza passeggera, bensì come scelta consapevole: infatti, negli ultimi 10 anni la quota di proprietari che si consulta col veterinario per l’alimentazione dei pet è passata dal 35 al 55 per cento”.

Aumento a doppia cifra per le reti
Per quanto riguarda la vendita al dettaglio, il mercato del pet continua nel trend degli anni scorsi, con un’affermazione positiva della Grande Distribuzione Organizzata da una parte e delle catene in franchising, dall’altra. Mentre fanno fatica i pet shop tradizionali. Le catene Petshop (7,2% dei volumi e l’11,2% dei valori, per un totale di 40,2 tonnellate e 221,2 milioni di euro) hanno continuato a crescere a due cifre con risultati del +12,6 per cento a valore e +12,3 per cento a volume rispetto all’anno precedente. Per catene Petshop si intendono punti vendita specializzati nella vendita di alimenti e articoli per animali e sono circa 503. Il Grocery concentra il 56,8 per cento del fatturato complessivo del mercato petfood (in termini assoluti 1.222,5 milioni di euro) e il 75,1 per cento dei volumi (420.234 tonnellate). Prosegue nel 2016 lo sviluppo del mercato, con un trend positivo a valore di +1,4 per cento e a volume +0,9 per cento. Per Grocery si intendono ipermercati, supermercati e discount. La crescita del Grocery è guidata dai supermercati che sviluppano il 30,1 per cento del fatturato e 33,6 per cento dei volumi. Di contro, nel 2016, persiste la flessione degli ipermercati (10,7% dei volumi e 9,3% del fatturato) legata alla crisi strutturale del canale ma anche allo sviluppo dei superstore e delle superfici specializzate; restano in campo negativo le piccole superfici a libero servizio (100-399mq) che sviluppano il 5,8 per cento del fatturato e il 6,6 per cento dei volumi. In crescita le vendite sviluppate dal canale discount (20,6% dei volumi e 8,4% del fatturato) (Fonte: Rapporto Zoomark 2017). Per quanto riguarda la redditività, rispetto a un pet shop tradizionale, uno appartenente a una rete strutturata rende quattro volte di più al metro quadrato. Infatti, sempre per il rapporto Zoomark 2017 “le catene uniscono l’opportunità derivante dall’elevata specializzazione dei Petshop Tradizionali con un format più vicino al canale Grocery per quanto riguarda la gestione assortimentale e del display. Da ciò derivano inevitabili vantaggi competitivi chiave del successo che il canale ha avuto negli ultimi anni”. Sono significative le differenze di acquisto fra le ragioni italiane. Il Nord Italia sviluppa oltre la metà delle vendite (53,9%): in particolare il Nord Ovest sviluppa quasi un terzo dei volumi totali (32,4%), mentre il Nord Est sviluppa il 20,4 per cento dei volumi. Il Centro e la Sardegna, con il 28,4% delle vendite, risulta essere la seconda area in termini di incidenza sui volumi. Il Sud resta tuttora l’area che copre i minori volumi (18,7% del totale).

Turismo: le dinamiche di mercato e il ruolo del franchising

Non c’è comparto economico più esposto agli eventi dell’attualità e dell’economia come quello del turismo. Se, da una parte, gli operatori del settore stanno uscendo dagli anni difficili della crisi economica, dall’altra devono fare i conti con il terrorismo internazionale. Tuttavia i dati parlano di una crescita leggera ma costante da alcuni anni.

Dal mondo all’Italia

Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale del Turismo (OMT), nel 2015, ultimo anno su cui abbiamo dati completi, gli arrivi internazionali sono stati 1,186 miliardi con un incremento pari al 4,6 per cento, 52 milioni in più rispetto al 2014. Quasi tutte le macro-aree mondiali hanno presentato variazioni positive negli arrivi: la crescita risulta più elevata per le Americhe (5,9%) e per l’Asia e il Pacifico (5,6%), seguono le l’Europa (4,7%) e il Medio Oriente (1,7%), solo l’Africa è risultata in flessione (-3,3%). L’Europa – che si conferma l’area più visitata del mondo – ha raggiunto quota 607,7 milioni di arrivi, con 27,5 milioni di turisti in più rispetto al 2014. L’aumento ha riguardato anche l’Europa Meridionale/Mediterranea con 10,4 milioni di arrivi in più (+4,8%). Secondo l’OMT, nella graduatoria 2015 delle destinazioni turistiche mondiali più frequentate dal turismo straniero l’Italia si conferma al 5° posto per gli arrivi e al 7° posto per gli introiti. Sul versante dei flussi turistici stranieri in Italia, nel primo semestre 2016, secondo i dati Istat provvisori, si registra una flessione del 3,3 per cento negli arrivi e dell’1,3 per cento nelle presenze, anche se il 2015 è l’ottavo anno consecutivo che ha fatto registrare l’aumento di arrivi stranieri rispetto all’anno precedente.

Il mercato italiano

Nel 2016, si stima che il numero di viaggi con pernottamento effettuati dai residenti in Italia sia pari a 66 milioni e 55 mila. Per la prima volta, dopo sette anni, la variazione è positiva rispetto all’anno precedente (+13,7%). Rispetto al 2015 la durata media dei viaggi si riduce lievemente, attestandosi a 5,4 notti (5,6 per quelli di vacanza e 3,5 per quelli di lavoro), per un totale di circa 356 milioni di pernottamenti. Le vacanze brevi (fino a tre pernottamenti), stimate in 29,3 milioni, crescono del 20,7 per cento rispetto al 2015, quelle lunghe, pari a 29,9 milioni, dell’11,3 per cento. Sostanzialmente stabili rispetto al 2015 i viaggi per motivi di lavoro (6,7 milioni). Nell’82,8 per cento dei viaggi i residenti scelgono come destinazione località nazionali. I viaggi all’estero (17,2% dei viaggi) avvengono soprattutto verso i Paesi dell’Unione europea (9,8%). Le vacanze lunghe estive trascorse in Italia hanno più frequentemente come destinazione la Puglia (12,9%) e l’Emilia-Romagna (11,4%), mentre il Trentino-Alto Adige è la meta preferita in inverno (24,8%) e autunno (16,3%). La Spagna è la meta più scelta per le vacanze lunghe all’estero (12%), la Francia per quelle brevi (22,1%), mentre la Germania è il paese più frequentato per motivi di affari (17,4% dei viaggi di lavoro all’estero). Tra i viaggi con mete extra-europee, gli Stati Uniti sono la destinazione preferita per le vacanze lunghe (16,4%), la Cina per i viaggi d’affari (8,4%) (Fonte: Istat).

Sempre più online

Nel 2016 oltre la metà dei viaggi è stata organizzata online (53,9% dei viaggi di lavoro e 49,8% delle vacanze lunghe) (Prospetto 17). Il 42,1% dei viaggi è effettuato senza prenotazione, stima che sale al 44,6% nel caso delle vacanze brevi. La prenotazione tramite agenzia o tour operator, che riguarda complessivamente il 7,3% dei viaggi, è più frequente per i viaggi di affari (12%) e per le vacanze lunghe (7,9%). La prenotazione tramite Internet arriva a sfiorare nel 2016 il 40% dei viaggi ed è in crescita, rispetto all’anno precedente, di circa il 30% per le vacanze (+40,7% per quelle lunghe).

I vantaggi del franchising

Quali sono i vantaggi nell’aprire un’agenzia in franchising? Possiamo sintetizzarli con:

  • economie di scala nella negoziazione con i fornitori per ottenere commissioni d’agenzia di rilievo e/o offerte di prodotto dedicate
  • la centralizzazione di alcune procedure contabili e amministrative
  • il supporto per la realizzazione di attività di marketing territoriale
  • il presidio dei diversi canali di comunicazione
  • l’assistenza e il supporto costante del franchisor
  • poter contare su un marchio noto ed un know-how acquisito nel tempo e sperimentato dal mercato.

Benessere e bellezza, fra novità normative e nuove reti in franchising

Il mondo della salute sta cambiando. Nelle abitudini, nei luoghi, nei consumi. Tant’è vero che si stanno imponendo nuovi termini (“bellessere”, fra bello e benessere, digital health, eccetera), nuove location, nuove realtà ibride, nuovi attori. Nel 2015, ultimo dato completo pubblicato da uno studio dell’Università Bocconi di Milano, su 149 miliardi di risorse destinate alla sanità italiana, 34 derivavano dalla spesa privata. Il comparto socio-assistenziale raggiungeva i 50 miliardi. Nel corso degli anni, la domanda di cure private sta dilatandosi, ormai è pari a circa un terzo del totale, per il progressivo ripiegamento dell’offerta pubblica. Nel triennio 2013-2015, per esempio, la quota de privati è aumentata del 3,2 per cento, con più di 10 milioni di italiani che nel corso del tempo si sono rivolti a strutture non pubbliche. A questi dati aggiungiamo anche il fenomeno del progressivo invecchiamento della popolazione – nel 2050, ci saranno nel mondo due miliardi di anziani per una popolazione di quasi 10 miliardi e per l’Europa la percentuale è destinata a salire fino al 34 per cento – l’esplosione di altri canali distributivi come quelli della Grande distribuzione organizzata e l’accresciuta sensibilità dei cittadini verso i temi del benessere e avremo l’idea di un settore in profonda trasformazione.

Le farmacie

Le farmacie rappresentano forse il caso più evidente ed emblematico di questa trasformazione che sta interessando il comparto della salute. Nel momento in cui scriviamo il disegno di legge sulle liberalizzazioni si trova in discussione al Senato per quella che dovrebbe essere l’ultima tappa di un percorso lungo, troppo lungo, che dovrebbe aprire il mercato delle farmacie ai fondi privati. Ma cosa prevedere il testo della norma? Questi i punti principali:

  • Possibilità per le società di capitali di essere titolari di farmacie
  • Rimozione del limite di 4 licenze per un singolo soggetto, sostituito con l’introduzione del limite del 20 per cento delle farmacie esistenti nella stessa Regione o Provincia autonoma
  • Possibilità di fornire anche i farmaci ospedalieri (Fascia H)
  • Possibilità di ampliare gli orari e i turni di apertura.

È chiaro a tutti come queste disposizioni permetteranno ai grandi gruppi di venire a fare “shopping” in Italia in un mercato che fino a oggi è ingessato da troppi vincoli e divieti e per i farmacisti di poter ampliare lo spettro dei prodotti in vendita con l’aggiunta della fascia “H”.

La farmacia sta cambiando non solo dal punto di vista della legislatura, ma anche da quello delle sue funzionalità. Giacomo Bruno, associate consultant di S.A.V.E. – Studi Analisi Valutazioni Economiche di Milano, del dipartimento di Scienze del farmaco dell’Università degli Studi di Pavia, nota già da ora un aumento della competizione nel settore, con un conseguente abbassamento dei margini e uno spostarsi dalla sola commercializzazione dei prodotti all’erogazione di sempre più servizi. Secondo uno studio di IMS Health, multinazionale che supporta l’industria farmaceutica attraverso la fornitura di informazioni, analisi e servizi di consulenza, l’autocura e il commerciale stanno crescendo nel canale farmacia più del comparto etico (+7,3 per cento contro +1,4 per cento, anche se in termini assoluti l’etico fattura ancora di più, 2,6 miliardi di euro contro 1,7 miliardi).

Un affare digitale da 30 miliardi di dollari

Una ricerca promossa a fine 2015 dell’Università La Sapienza di Roma, Istituto Superiore di Sanità e Agenzia italiana del farmaco ha mostrato come internet per il 74 per cento degli italiani ha sostituito il medico quando si cerca una risposta ai sintomi di un malessere. Un fenomeno che sta attirando, e non poteva essere diversamente, i big della Rete. Oggi il mercato della salute digitale vale 15 miliardi di dollari, ma è destinato a raddoppiare entro il 2020. Google, per esempio, ha deciso di lanciare un servizio di ricerca proprietario dedicato alla spiegazione medica dei sintomi. Presto sarà disponibile anche fuori dagli Stati Uniti. Nel 2014, Apple ha rilasciato invece un’applicazione e una piattaforma denominata HealthKit, in modo da consentire agli sviluppatori di rendere le applicazioni per la salute parte integrante del sistema Apple. L’azienda guidata da Tim Cook ha già fatto un passo avanti verso la telemedicina con CareKit una piattaforma progettata specificamente per applicazioni medico-paziente, in modo che il dialogo possa diventare tecnologico e abbattere i costi. E propria questa strada digitale sembra essere il futuro dal momento che, secondo Idc Technologies services, la società che monitora il mercato delle nuove tecnologie, il 70 per cento delle Organizzazioni sanitarie mondiali intende investire su applicazioni mobile e wearable per raccogliere dati a distanza su malattie anche gravi. Secondo un’analisi di PricewaterhouseCoopers (PwC) esistono già 165mila applicazioni dedicate al benessere e alla salute, di cui solo il 5 per cento ha volumi significativi di utilizzo. Questo però non vuol dire che il trend non sia forte, tant’è vero che, sempre secondo Pwc, la domanda di medicina elettronica arriverà presto a 1,5 miliardi di App scaricate per un giro d’affari del mobile health che supererà quota 20 miliardi di euro. E che il futuro sia questo lo si legge anche nelle scelte di campo della politica: in America, l’amministrazione Obama ha concesso incentivi fiscali per 30 miliardi di dollari per digitalizzare i dati di milioni di pazienti; l’Ue, invece, ha lanciato la sua prima consultazione pubblica sulle App che si occupano della salute dei consumatori che si chiuderà il 15 settembre 2016 e vuole dare voce a sviluppatori e utilizzatori di applicazioni.

Startup forever

Il mercato delle startup legate al “digital heath”, secondo le stime degli analisti, può raggiungere i 230 miliardi di dollari di controvalore entro il 2020. Le app legate alla salute sono quelle con il più alto tasso di sviluppo e quelle che attirano maggiormente i giovani. Nielsen ha calcolato che potenzialmente metà dei giovani fino a 34 anni sono interessati a utilizzare queste applicazioni.

E se anche Amazon…

Amazon ha deciso di investire nel mercato multimiliardario (a livello globale) della vendita di farmaci. Nulla ancora di ufficiale. Tuttavia, il colosso statunitense sembra essere particolarmente deciso, tanto da aver assunto un nuovo manager al quale è stato affidato un team con il compito di formulare una strategia. Amazon ha già avviato di recente la vendita di strumentazioni e macchinari sanitari all’interno degli Stati Uniti e sta procedendo a nuove assunzioni al fine di irrobustire il proprio team dedicato ad un “professional health care program”. Un articolo riportato dal Japan Times nello scorso mese di aprile aveva d’altra parte indicato che l’azienda ha avviato l’estensione sul territorio nipponico del proprio servizio “Prime Now” anche a medicinali e cosmetici, avvalendosi del supporto di partner locali. Sul sito internet giapponese di Amazon, tali prodotti sono inclusi nella categoria “farmaceutici” e le vendite, sottolinea l’emittente americana CNBC, la prima a darne notizia, sono effettuate previa approvazione di un farmacista. D’altra parte, spesso il noto sito di commercio elettronico utilizza la strategia di testare un nuovo business in un singolo Paese, prima di generalizzarlo. Il settore farmaceutico, d’altra parte, fa gola: basti pensare che solamente negli Stati Uniti esso “vale” qualcosa come 4 miliardi di prescrizioni all’anno. Nel 2015, pazienti, compagnie d’assicurazione e altri soggetti hanno speso all’incirca 300 miliardi di dollari per i soli medicinali con obbligo di ricetta.

Sempre più franchising nella moda: fatturato oltre i 20 miliardi

Continua a rimanere l’export il fiore all’occhiello del sistema della moda italiana che ha fatto segnare nel 2016 una “ripresina”. Il 2017 si prevede ancora migliore, con un fatturato e ordinativi in crescita. Secondo il bilancio settoriale elaborato da Sistema Moda Italia, l’industria nostrana del Tessile-Moda ha chiuso il 2016 con un fatturato in lieve crescita (+0,9%) rispetto al 2015. Il turnover settoriale, pertanto, si porta a 52,8 miliardi di euro, guadagnando poco più di 450 milioni rispetto al 2015. Risultati diversi fra i comparti: se il turnover del tessile risulta nel complesso stabile, l’Abbigliamento-Moda accelera al +1,4 per cento. Come anticipato, a trainare il tutto l’esportazione. Nel 2016, le vendite estere, infatti, sono cresciute del +1,7 per cento, a 29.555 milioni di euro, assicurando così un’incidenza del 56 per cento sul turnover totale. Il mercato comunitario ha evidenziato un aumento pari al +2,2 per cento, mentre quello extra-UE cresce mediamente del +1,1 per cento. L’import, pur in crescita, mostra un significativo rallentamento del ritmo, facendo registrare un +1,3 per cento.

Il “Maschio” benino
La moda maschile italiana (a esclusione dell’intimo) ha chiuso il 2016 con una crescita del +1,2 per cento. Il fatturato settoriale ha superato i 9 miliardi di euro. Ad andare meglio del previsto le esportazioni, mentre peggio del previsto le vendite sul mercato interno, con un calo del 2,2 per cento. A livello di canale distributivo, secondo i dati raccolti per Pitti Uomo, le catene hanno sorpassato per valore il dettaglio tradizionale nel 2014, salite a quota 35,7 per cento. Sempre le catene fanno segnare segnali in controtendenza rispetto alla media settoriale, con una variazione del +0,4 per cento nel periodo marzo 2016/febbraio 2017 rispetto allo stesso periodo precedente. Il dettaglio indipendente, passato a quota 26,9 per cento, cede il -7,7 per cento. Molto bene il canale della Grande Distribuzione Organizzata (GDO) che fa segnare vendite in positivo con un +2,7 per cento. Ma, a cavallo fra 2016 e il 2017, il vero protagonista è stato il commercio online, con un fatturato in aumento del +42 per cento, raggiungendo una quota di mercato del 6,3 per cento, sempre limitatamente all’uomo (nel 2015 era al 4,4%).

La “Donna” bene
Il comparto femminile rappresenta un quarto del fatturato totale della moda italiana. Ha chiuso il 2016 in terreno positivo per il terzo anno di fila, a dimostrazione che ha caratteristiche anticicliche. Sulla base dei dati SMI, il turnover di settore mette a segno un aumento del +1,3 per cento, vicino ai 13 miliardi di euro. Se nell’uomo il peso delle reti è pari al 35 per cento, per il femminile questo dato supera il 45 per cento, anche se in calo rispetto al 2015 del 3,7 per cento del valore totale. Anche qui, boom del commercio online con un aumento del 28 per cento, con un’incidenza del 4,1 per cento sul totale del mercato. La GDO raggiunge quota 14,5 per cento, crescendo del +7,9 per cento. Il dettaglio indipendente continua a calare lasciando sul terreno un ulteriore -16,6 per cento, pari al 21 per cento del mercato nazionale. Male anche gli outlet.

Il “Bambino” benissimo
Nel 2016 l’abbigliamento bambino, compreso l’abbigliamento intimo, è forse il settore più dinamico degli ultimi anni dell’intero comparto moda. Il fatturato, superando i 2,7 miliardi di euro, ha fatto segnare nel 2016 sul 2015 un aumento del 2,8 per cento, in ulteriore accelerazione rispetto alla rilevazione precedente. “Il segmento del junior non sembra esser vittima di fattori congiunturali, sia per il maggior coinvolgimento emotivo sia per necessità funzionali legate al più breve ciclo di vita, il comparto sembra, dunque, aver trovato un nuovo punto di equilibrio” nota la ricerca. La “bambina” rappresenta, per consumi, la fetta della torta più consistente con quasi il 47 per cento della quota mercato, con il “bambino” in leggera flessione e il “neonato” stabile. Le catene si confermano primo canale di vendita, con un’incidenza del 51,4 per cento sul totale. Molto bene anche la GDO (+11,5%) e il web (17,4%), anche se resta confinato a quota del 3,3 per cento, meno preponderante rispetto agli altri segmenti. Molto male sia il canale dei negozi indipendenti (-12,3%) sia gli outlet (-50%).

Intimo
Vale poco più di 4 miliardi il comparto dell’intimo, comprendente anche le collezioni mare e la calzetteria fattura in Italia circa 4 miliardi di euro l’anno. Analizzando nel dettaglio le categorie merceologiche, le performance migliori sono quelle della calzetteria e del beachwear.A rivoluzionare il mercato della lingerie, in Italia e non solo, è stata la trasformazione dei canali distributivi. Ai negozi multimarca si sono affiancate le catene di negozi monobrand, di proprietà oppure in franchising, che hanno contribuito da un lato a rafforzare la presenza delle etichette dalle grandi vie dello shopping ai centri commerciali e, dall’altro, a far crescere l’identità del marchio. Le catene oggi coprono il 40 per cento del mercato italiano, seguite dagli indipendenti, al di sotto del 20 per cento. Anche in questo segmento registriamo un avanzamento del web con una crescita anno su anno in media del 5 per cento, con una quota sul totale del fatturato pari, attualmente, all’otto per cento.

Il fitness in franchising di Bodystreet sbarca in Italia

Bodystreet, marchio del fitness il cui metodo si basa sulla stimolazione elettro-muscolare, è alla ricerca di partner per le aperture di nuovi centri in franchising in Italia. Il primo centro è stato inaugurato a Verona, mentre l’obiettivo è di arrivare a quota 200 nei prossimi 5 anni. Il centro pilota a livello nazionale aperto a Verona ha una dimensione di 100 mq e conta due dipendenti, ma le misure possono essere anche inferiori, circa 80 mq”.

 

Secondo quanto affermato da Thomas Ruedl, master franchise per l’Italia e referente per le aperture sul territorio nazionale, afferma: “L’investimento iniziale ammonta da 70.000 a 90.000 euro chiavi in mano – prosegue Ruedl – con un tempo di ammortamento pari a circa un anno”. Dal 2009 ad oggi, Bodystreet ha aperto oltre 250 centri in tutta Europa. Le sessioni di allenamento erogate mensilmente sono oltre 150.000.