Il contratto di franchising negli Stati Uniti

 

Negli Stati Uniti si fa spesso ricorso al contratto di franchising per diffondere e consolidare il proprio marchio.

Teniamo anche presente che questa esigenza è sicuramente molto legata all’ampiezza del territorio con conseguente difficoltà di presenza capillare con punti vendita o realtà proprie. Prima del Covid-19 negli Stati Uniti vi erano circa 2.500 sistemi di franchising che gestivano circa 800.000 realtà in franchising in 300 diversi settori. Queste attività in franchising hanno generato oltre 7 milioni 600.000 posti di lavoro, circa 674 miliardi USD in termini di valore della produzione e il 2,5% del prodotto interno lordo.

Purtroppo, a causa del Covid, nell’agosto 2020, circa 32.700 attività in franchising hanno chiuso e, di queste, 10.875 in maniera definitiva. Il mercato del franchising ha registrato una perdita di 1 milione 400.000 posti di lavoro a causa della pandemia, il 40% dei quali, in maniera definitiva.

LA RIPRESA DOPO LA PANDEMIA

 Il sistema franchising è noto per la sua resilienza e innovazione, ma bisogna capire quanto rapidamente potrà riprendersi al termine della pandemia.

Le dieci più importanti catene di franchising a livello mondiale di trovano negli Stati Uniti (McDonalds, Pizza Hut, KFC, Burger King, …): esse rappresentavano oltre 300 miliardi USD di vendite annuali, con una continua crescita.

Gli interessi dei marchi in franchising negli Stati Uniti sono rappresentati dalla International Franchise Association, con sede a Washington, che è la più grande e più antica organizzazione al mondo nell’ambito del franchising.

PECULRIATIA’ E DIFFERENZE NEL CONTRATTO DI FRANCHISING

Occorre premettere che, sia pure con le caratteristiche comuni, presenti ovunque, il contratto di franchising negli Stati Uniti a volte presenta peculiarità e differenze tra uno Stato e l’altro e che quindi è buona raccomandazione quella di fare una specifica e preventiva verifica delle norme vigenti nel territorio nel quale si intende operare.

Abbiamo detto che la disciplina del contratto di franchising non è uniforme e si differenzia da Stato a Stato e che a volte è assente.

A livello federale l’ente che si occupa di franchising è la Federal Trade Commission e la legge di riferimento è  la FTC Franchise Rule del 2007, denominata “Disclosure Requirements and Prohibition Concerning Franchising”. In generale si tratta di norme a tutela del franchisee.

APRIRE UNA RETE IN FRANCHISING IN USA

La scelta di aprire una rete di franchising, specie in USA, deve essere necessariamente preceduta da un accurato studio di fattibilità, che tenga conto, tra gli altri aspetti, delle caratteristiche del mercato, non certo uniformi, delle abitudini dei potenziali acquirenti dei beni o servizi, delle normative sul lavoro e degli aspetti fiscali, dell’entità dell’investimento necessario, che non è certo di lieve entità.

Per prima cosa è indispensabile che il marchio del franchisor sia registrato e valido negli Stati Uniti.

La FTC richiede che le venga inviata preventivamente l’informativa precontrattuale (Franchise Disclosure Document  – FDD) che soddisfi i requisiti richiesti dalle norme vigenti e dalla FTC Franchise Rule.

15 Stati inoltre richiedono che il franchisor registri il FDD ed altri 7, che si compili un modulo prima di offrire o vendere in franchising in tali Stati.

Gli obblighi di informativa e di registrazione hanno lo scopo di tutelare i franchisee ed i potenziali franchisee.

Il franchisor deve inoltre essere in grado di soddisfare i requisiti della supply chain, intendendo per tale la possibilità di garantire tutti i passaggi relativi agli articoli offerti, dalla produzione alla importazione negli Stati Uniti, nel rispetto delle norme relative ai singoli prodotti ed alle regole di importazione, compresi i costi doganali e di logistica.

Gli elementi che caratterizzano questo tipo di contratto, come sempre, sono:

  • la concessione del marchio da parte del Franchisor a favore del Franchisee per la vendita di beni o servizi;
  • il pagamento di una entry fee a favore del Franchisor;
  • il controllo dell’attività del Franchisee da parte del Franchisor per il raggiungimento di un interesse comune.

È consigliabile, nel caso in cui il titolare del marchio sia un soggetto straniero, che costituisca una società o incarichi un soggetto giuridico nel territorio, con il compito di agire in qualità di master franchising.

In tal caso il master franchisor ha l’incarico di stipulare contratti di sub-franchising con sub-franchisee a livello locale.

In questo caso il primo contratto, tra soggetti appartenenti a Paesi diversi, sarà disciplinato in base alle norme di diritto internazionale privato, mentre il secondo, dalle norme locali.

Qualora il franchisor italiano intenda agire direttamente, potrà farlo, magari avvalendosi di un area representative locale, per lo svolgimento di alcuni compiti specifici, come l’assistenza all’aperura del punto vendita, e nelle fasi di avviamento. 

A volte si fa invece ricorso alla figura dell’area developper franchisee cui viene data l’esclusiva territoriale per l’apertura di punti vendita per beni o servizi.

È utile ricordare che la precisione nella stesura delle clausole contrattuali è sempre importantissima sia per l’esatta qualificazione del contratto, sia per individuare gli oneri a carico delle parti evitando così il più possibile l’insorgere di controversie a livello interpretativo.

Ikea punta sull’usato

di Fabrizio ValenteFounder e amministratore di Kiki Lab (Gruppo Promotica)


Nel 2017 Ikea ha annunciato un progetto coraggioso e ambizioso: convertire la propria attività in chiave di economia circolare entro il 2030, puntando all’utilizzo esclusivo di materiali sostenibili o riciclati e facilitando l’allungamento del ciclo di vita dei prodotti.

Responsible Experience

Seguendo il piano che si sta sviluppando con varie azioni concrete, l’azienda svedese nell’autunno 2020 ha aperto un negozio dell’usato all’interno del centro commerciale svedese Retuna, (di cui abbiamo già parlato in Retail Innovations 12) per la sua particolarità di ospitare solo negozi dell’usato.

Il piccolo negozio, di soli 75 mq, propone piccolo mobilio, come tavoli, sedie, librerie e accessori che vengono riparati e rivenduti. Il negozio dispone di un magazzino, gli addetti valutano i prodotti usati e si occupano di igienizzarli e ripararli per poterli rimettere in vendita a un prezzo scontato.

Oltre che prolungare il ciclo di vita dei prodotti e limitare quindi gli sprechi, il test ha anche l’obiettivo di conoscere meglio atteggiamenti e comportamenti concreti dei clienti nei confronti dell’usato, sia quello che viene dismesso, sia quello che viene acquistato.

Nello stesso tempo, Ikea intende ricoprire un ruolo educativo per i propri clienti, ampliando la sensibilità alla riduzione dell’impatto ambientale a 360° e stimolando quindi la compra-vendita dell’usato.

Commento finale Kiki Lab

Il mercato dell’usato è in fortissima espansione nel mondo, guidato da due driver importanti, che spesso attirano target diversi: prodotti scontati e attenzione per l’ambiente. Anche su questo aspetto in Italia siamo indietro, ma l’impatto sia economico che sulla consapevolezza della sostenibilità può farci riflettere sull’opportunità per i retailer di vari settori di seguire l’esempio di Ikea.

Sfida: espandere a breve il progetto su larga scala e su mercati test più “sfidanti”.

Mapic Cannes – Roberto Zoia fa il punto sul settore dei centri commerciali

Roberto Zoia, presidente del CNCC (Consiglio Nazionale dei Centri Commerciali), fa il punto sui primi due giorni del Mapic di Cannes, uno degli eventi più importanti del settore commerciale a livello internazionale. Inviamo di seguito la sua dichiarazione, a margine della conferenza “Back to the future”, in cui verranno approfonditi i temi del commercio e del retail fisico, alla luce degli effetti dei complicati mesi caratterizzati dalla pandemia e all’aumento dell’e-commerce.

 

“In un momento di incertezza, dettato anche da un nuovo aumento dei casi di Coronavirus a livello internazionale, l’evento fisico di Mapic a Cannes lancia un segnale di grande ottimismo per il futuro del nostro settore. In questi tre giorni, la comunità italiana che rappresenta l’Industria dei centri commerciali – di cui fanno parte tutti gli stakeholder del nostro comparto -, ha dimostrato una grande partecipazione, confermandosi ancora una volta una presenza di rilievo all’evento. Abbiamo dimostrato unità di intenti sul futuro dei centri commerciali nel nostro Paese e sul percorso che, tutti insieme, vogliamo intraprendere per rendere le nostre strutture sempre più attrattive per le persone e i loro bisogni, da sempre centrali nel nostro business. Dai colloqui avuti con operatori, gestori e proprietari sono emersi risultati molto incoraggianti in termini di vendite fisiche, a dimostrazione che il format di centro commerciale è ancora attuale e d’appeal. Negli ultimi anni stiamo puntando, in particolare, a due fattori chiave: evoluzione e adattamento. Il nostro impegno in tal senso ci ha permesso di incontrare i nuovi bisogni dei nostri clienti, rendendo le strutture sempre più luoghi di destinazione. Questi elementi mi rendono fiducioso sul futuro del nostro comparto e ottimista che il 2022 sarà l’anno in cui riusciremo finalmente a tornare ai livelli pre-pandemia, con uno spirito di innovazione ancora più consapevole”.

Roberto Zoia