La protezione dei dati personali nelle reti di franchising

di Alessio Molinarolli – Avvocato

 

Il concetto stesso di rete implica un collegamento e, in modo praticamente inevitabile, una qualche forma di comunicazione. Non che le reti di franchising e la rete internet siano la stessa cosa, ma la struttura di una rete, di qualunque rete, si può ridurre, con buona approssimazione, a quest’idea basilare.

Se si accetta questo presupposto, poi, ne va in qualche modo accettato un corollario: ogni forma di comunicazione richiede la presenza di informazioni, di dati che si muovono da una parte all’altra, da un soggetto all’altro.

Quando si parla di informazioni, peraltro, è possibile riferirsi a quelle, si potrebbe dire, pure e semplici, come un dato di mercato, una ricetta o lo stesso know-how, oppure ad altre, più particolari, di valore forse maggiore: i dati personali, vale a dire quelle informazioni che si riferiscono ad una persona identificata o identificabile.

Sul valore occorre intendersi: che i dati personali siano il nuovo petrolio è affermazione talmente diffusa e condivisa che risulterebbe persino noioso argomentare ulteriormente. Di sicuro, poi, le reti di franchising non sono immuni al “fascino” (e all’efficacia) di campagne di lead, del marketing diretto, magari abbinato a più o meno sofisticate tecniche di profilazione, delle tessere punti o fedeltà, di tutto ciò che, in breve, trova il proprio fondamento nella raccolta e nell’utilizzo di informazioni sulle persone, potenziali clienti più facilmente e comodamente raggiungibili grazie a queste tecniche e all’uso della tecnologia.

Se tutto questo sembra logico, desta non poco stupore, quanto meno a chi scrive, che non si sia sviluppato un particolare dibattito intorno al tema del trattamento dei dati personali, cioè, tanto per capirsi, alla vecchia privacy, all’interno delle reti di franchising, neppure dopo l’entrato in vigore del Regolamento UE 2016/679 (l’ormai famoso – o famosa – GDPR)

E’ evidente che in queste reti non solo ci si trova di fronte ad innumerevoli trattamenti di dati personali ma si assiste anche a caratteristiche davvero peculiari, se non uniche, di questi trattamenti dovute proprio alla presenza di più soggetti, collegati “in rete”, che comunicano tra loro e, sempre più spesso, contemporaneamente con i “clienti”.

I diritti degli interessati e le “domande chiave”

L’affermazione relativa al dibattito poco sviluppato in materia di franchising e protezione dei dati merita una precisazione.

Si è affrontato cioè il problema solo dal punto di vista tecnico-informatico e del sistema di gestione.

In molti casi, anche fuori dall’orbita del franchising, si è ritenuto infatti che la questione fosse di pertinenza esclusivamente tecnico informatica, commettendo così, a parere di chi scrive, un errore grave e grossolano: tralasciare l’aspetto giuridico, quello, per dirla in modo netto, che regola il confine tra lecito e illecito.

Non è detto, infatti, che un’impresa dotata dei migliori strumenti di protezione (tecnologica) delle proprie reti, stia trattando i dati personali in modo lecito (e questo senza ovviamente nulla togliere alla fondamentale importanza del profilo della sicurezza informatica).

Per comprendere questo è necessario considerare che la disciplina in questione non fa proprio un concetto ampio di “privacy”, intesa come qualcosa di simile alla riservatezza, ma consacra un principio forse più realistico, quello della protezione dei dati personali.

Anche qui, occorre fare attenzione alle parole utilizzate, perché la protezione di cui si parla non è sinonimo di difesa ma di un diritto dell’interessato – della persona cioè alla quale si riferiscono i dati – al controllo degli stessi, a sapere cioè che cosa viene fatto degli stessi, da chi e con quali modalità.

Ora, questo “diritto”, che si può manifestare attraverso una serie di specifiche “facoltà” (come il diritto di accesso, di rettifica, di opposizione eccetera) implica che l’interessato possa in primo luogo ricevere risposta alcune semplici domande: “Chi tratta i miei dati? Perché? Su quale base giuridica? Con quali strumenti? Per quanto tempo? A chi vengono comunicati miei dati?”.  

Ovviamente a queste domande occorrerebbe dare una risposta “interna” alle imprese, in un processo di preventiva autoanalisi, prima che la mancanza di risposta (entro il termine di trenta giorni) o una risposta il cui contenuto non sia conforme alla legge, generi pesanti sanzioni pecuniarie o si traduca addirittura in illeciti penali.

La definizione dei ruoli privacy e delle basi giuridiche: un buon inizio

Tra i soggetti coinvolti nelle operazioni di trattamento spicca la figura del Titolare. Spesso si travisa l’espressione, pensando alla titolarità come a qualcosa di equivalente alla proprietà, credendo di poter stabilire in un contratto chi è il titolare e chi non lo è e finendo per cadere prigionieri di un set di convinzioni molto lontane dalle previsioni legali.

Primo punto. Il Titolare è chi decide le finalità di e le modalità di trattamento. Non si è proprietari di nulla, perché non c’è nulla di cui essere proprietari, dal lato GDPR. Non solo. Il titolare è colui che effettivamente decide le finalità e le modalità del trattamento, indipendentemente da cosa si stabilisca in contratti di vario genere.

Per comprendere questo aspetto è fondamentale passare al secondo punto: ogni trattamento deve avere una adeguata base giuridica. Fino a ieri per ogni attività era prevista la firma di un consenso; dal 2018 (anno di entrata in vigore del Regolamento) il consenso rappresenta una base giuridica residuale, da utilizzare solo quando non ve ne siano altre disponibili (senza contare che la gestione dei consensi comporta molti, anzi moltissimi, oneri pratici in capo al Titolare).

In ambito privato la base giuridica più corretta è il più delle volte quella che riguarda “l’esecuzione di un contratto”.

 

Il contratto di franchising negli Stati Uniti

 

Negli Stati Uniti si fa spesso ricorso al contratto di franchising per diffondere e consolidare il proprio marchio.

Teniamo anche presente che questa esigenza è sicuramente molto legata all’ampiezza del territorio con conseguente difficoltà di presenza capillare con punti vendita o realtà proprie. Prima del Covid-19 negli Stati Uniti vi erano circa 2.500 sistemi di franchising che gestivano circa 800.000 realtà in franchising in 300 diversi settori. Queste attività in franchising hanno generato oltre 7 milioni 600.000 posti di lavoro, circa 674 miliardi USD in termini di valore della produzione e il 2,5% del prodotto interno lordo.

Purtroppo, a causa del Covid, nell’agosto 2020, circa 32.700 attività in franchising hanno chiuso e, di queste, 10.875 in maniera definitiva. Il mercato del franchising ha registrato una perdita di 1 milione 400.000 posti di lavoro a causa della pandemia, il 40% dei quali, in maniera definitiva.

LA RIPRESA DOPO LA PANDEMIA

 Il sistema franchising è noto per la sua resilienza e innovazione, ma bisogna capire quanto rapidamente potrà riprendersi al termine della pandemia.

Le dieci più importanti catene di franchising a livello mondiale di trovano negli Stati Uniti (McDonalds, Pizza Hut, KFC, Burger King, …): esse rappresentavano oltre 300 miliardi USD di vendite annuali, con una continua crescita.

Gli interessi dei marchi in franchising negli Stati Uniti sono rappresentati dalla International Franchise Association, con sede a Washington, che è la più grande e più antica organizzazione al mondo nell’ambito del franchising.

PECULRIATIA’ E DIFFERENZE NEL CONTRATTO DI FRANCHISING

Occorre premettere che, sia pure con le caratteristiche comuni, presenti ovunque, il contratto di franchising negli Stati Uniti a volte presenta peculiarità e differenze tra uno Stato e l’altro e che quindi è buona raccomandazione quella di fare una specifica e preventiva verifica delle norme vigenti nel territorio nel quale si intende operare.

Abbiamo detto che la disciplina del contratto di franchising non è uniforme e si differenzia da Stato a Stato e che a volte è assente.

A livello federale l’ente che si occupa di franchising è la Federal Trade Commission e la legge di riferimento è  la FTC Franchise Rule del 2007, denominata “Disclosure Requirements and Prohibition Concerning Franchising”. In generale si tratta di norme a tutela del franchisee.

APRIRE UNA RETE IN FRANCHISING IN USA

La scelta di aprire una rete di franchising, specie in USA, deve essere necessariamente preceduta da un accurato studio di fattibilità, che tenga conto, tra gli altri aspetti, delle caratteristiche del mercato, non certo uniformi, delle abitudini dei potenziali acquirenti dei beni o servizi, delle normative sul lavoro e degli aspetti fiscali, dell’entità dell’investimento necessario, che non è certo di lieve entità.

Per prima cosa è indispensabile che il marchio del franchisor sia registrato e valido negli Stati Uniti.

La FTC richiede che le venga inviata preventivamente l’informativa precontrattuale (Franchise Disclosure Document  – FDD) che soddisfi i requisiti richiesti dalle norme vigenti e dalla FTC Franchise Rule.

15 Stati inoltre richiedono che il franchisor registri il FDD ed altri 7, che si compili un modulo prima di offrire o vendere in franchising in tali Stati.

Gli obblighi di informativa e di registrazione hanno lo scopo di tutelare i franchisee ed i potenziali franchisee.

Il franchisor deve inoltre essere in grado di soddisfare i requisiti della supply chain, intendendo per tale la possibilità di garantire tutti i passaggi relativi agli articoli offerti, dalla produzione alla importazione negli Stati Uniti, nel rispetto delle norme relative ai singoli prodotti ed alle regole di importazione, compresi i costi doganali e di logistica.

Gli elementi che caratterizzano questo tipo di contratto, come sempre, sono:

  • la concessione del marchio da parte del Franchisor a favore del Franchisee per la vendita di beni o servizi;
  • il pagamento di una entry fee a favore del Franchisor;
  • il controllo dell’attività del Franchisee da parte del Franchisor per il raggiungimento di un interesse comune.

È consigliabile, nel caso in cui il titolare del marchio sia un soggetto straniero, che costituisca una società o incarichi un soggetto giuridico nel territorio, con il compito di agire in qualità di master franchising.

In tal caso il master franchisor ha l’incarico di stipulare contratti di sub-franchising con sub-franchisee a livello locale.

In questo caso il primo contratto, tra soggetti appartenenti a Paesi diversi, sarà disciplinato in base alle norme di diritto internazionale privato, mentre il secondo, dalle norme locali.

Qualora il franchisor italiano intenda agire direttamente, potrà farlo, magari avvalendosi di un area representative locale, per lo svolgimento di alcuni compiti specifici, come l’assistenza all’aperura del punto vendita, e nelle fasi di avviamento. 

A volte si fa invece ricorso alla figura dell’area developper franchisee cui viene data l’esclusiva territoriale per l’apertura di punti vendita per beni o servizi.

È utile ricordare che la precisione nella stesura delle clausole contrattuali è sempre importantissima sia per l’esatta qualificazione del contratto, sia per individuare gli oneri a carico delle parti evitando così il più possibile l’insorgere di controversie a livello interpretativo.

Imprese vittime del covid e della criminalità

di Mirco Comparini – Commercialista – Revisore Legale – Consulente al franchising

 

Che la criminalità organizzata (le c.d. “mafie”) si sia introdotta nell’economia non è una novità. Da decenni i rapporti ufficiali dell’antimafia, le dichiarazioni di magistrati e ministri, ma anche ricerche e indagini specifiche, riportano il collegamento tra economia e mafie, ma anche tra franchising e criminalità. Chi scrive è autore di numerosi interventi sul tema “Franchising & Mafia” pubblicati negli anni a raccolta e assemblaggio di dati ufficiali e notizie di cronaca nazionale.

Con la crisi economica innescata dalla crisi sanitaria, le imprese si sono ulteriormente indebolite e sono diventate facili vittime di un ulteriore aumento di questa infiltrazione.

Già a febbraio 2021 Cerved aveva elaborato alcuni dati per una verifica individuando che effettivamente risultavano essere presenti non pochi “strani” cambi di titolare effettivo effettuati nel corso dell’emergenza sanitaria, con una maggiore incidenza del fenomeno in Campania e in Lazio, mentre i settori più interessati erano l’autonoleggio, la distribuzione carburanti e i giochi e le scommesse.

Non solo, ma già in precedenza la Banca d’Italia aveva fatto osservare che, a causa della pandemia, nel 2020 il numero di segnalazioni di operazioni sospette (SOS) ricevute dalla Uif (Unità di Informazione Finanziaria per l’Italia) era risultato forte crescita (+7%), con un aumento particolarmente marcato nel secondo semestre dell’anno (+10,3%). La crescita delle operazioni sospette era stata trainata dalle segnalazioni per riciclaggio (+11,1%), che hanno sfiorato quota 60 mila, compensando le minori segnalazioni relative al finanziamento del terrorismo e alla voluntary disclosure.

Un alert di rischio molto forte per la Guardia di Finanza tanto da far predisporre uno specifico progetto di analisi denominato «Imprese criminali», inizialmente riguardante la provincia di Milano e poi da estendere al resto della regione Lombardia e pronto per essere ampliato ad altre aree del paese.

Nel corso di una recente audizione alla Camera dei Deputati, il comandante generale Giuseppe Zafarana ha specificato come «anche le filiere che hanno subito le perdite maggiori, come quella della ristorazione del settore alberghiero e, più in generale, dell’offerta turistica, sono stati oggetto di tentativi di infiltrazione da parte delle organizzazioni criminali. Le mafie, infatti», ha aggiunto, «grazie alle ingenti disponibilità di contante possono presentarsi all’imprenditore in crisi con il volto rassicurante di chi presta denaro, ma con l’obiettivo di impossessarsi delle aziende nel medio termine».

Ecco quindi che “scorrendo l’elenco dei cambi si scopre che circa 2 mila persone in Italia, controllano quasi 20 aziende a testa e che in oltre 100 imprese ci sono solo 28 soggetti che controllano più del 25% della società” (Fonte: Italia Oggi, 26.05.2021).

Per comprendere le reali dimensioni del fenomeno, la Fondazione Pirelli riportava, in un articolo dal titolo “Gli interessi mafiosi per approfittare dell’emergenza Covid, comprare imprese in crisi e fare affari ai danni della salute” del 30.11.2020, un dato impressionante che rivelava il clamoroso peso economico di ‘ndrangheta, camorra e “cosa nostra” siciliana: 500 miliardi di euro. Questo l’importo investito per ripulire il denaro criminale in un’infinità di investimenti in mezzo mondo. Il dato è emerso dall’indagine della DDA (la Direzione Distrettuale Antimafia) di Reggio Calabria su un esponente della criminalità con robusti legami con le ‘ndrine locali e relazioni internazionali, soprattutto nei paradisi bancari e fiscali (da “La Stampa”, 28.11.2020). 

Per avere un metro di paragone, 500 miliardi sono circa il 30 per cento del PIL nazionale annuo, ma anche più del doppio delle somme messe a disposizione per l’Italia dal Recovery Fund della Ue, ma anche “l’equivalente, più o meno, della capitalizzazione (cioè del valore delle azioni) delle prime 25 società quotate alla Borsa di Milano (Enel, Eni, Banca intesa, Fca, Poste, etc.). Paragoni sono, naturalmente, un’approssimazione scientificamente non rigorosa. Ma servono, comunque, per dare ai lettori l’idea di una terribile, drammatica forza economica che le mafie continuano ad accumulare grazie alle loro attività illegali (droga, traffici di esseri umani, armi, riciclaggio di rifiuti inquinanti, scommesse clandestine, speculazioni su appalti e servizi pubblici, etc.) e i cui proventi reinvestono anche in attività apparentemente lecite, stravolgendo i mercati, gli affari legali, le attività delle imprese regolari, il funzionamento delle pubbliche amministrazioni. In sintesi: 500 miliardi di ‘ndrangheta, camorra e mafia siciliana per danneggiare la nostra vita e il nostro lavoro, l’ambiente in cui viviamo, la salute, il futuro dei nostri figli. Ricchezza abnorme di mafia per morire di mafia” (Fondazione Pirelli).

In sintesi, “l’emergenza sanitaria Covid-19 ha prodotto effetti “devastanti” sulla salute delle persone ma anche sulla tenuta del sistema economico, generando una situazione che offre opportunità di espansione alla criminalità organizzata nel suo complesso. Questa la premessa della Relazione semestrale al Parlamento sull’attività svolta dalla Direzione investigativa antimafia (Dia) relativa al I semestre 2020, pubblicata oggi. Da qui la necessità di monitorare l’evoluzione della situazione cercando di intercettare i segnali sintomo dei tentativi delle organizzazioni mafiose di “rilevare” le imprese in difficoltà finanziaria, praticando una sorta di “welfare criminale” tramite forme di assistenzialismo a privati e imprese in difficoltà come strumento per incrementare il consenso sociale e il controllo del territorio” (pagina web del Ministero dell’Interno al 24.02.2021).

Considerando che “per la criminalità organizzata all’indomani della pandemia i settori che rappresentano un investimento sono quello della ristorazione, la logistica, l’imballaggio, i magazzini merci, il distacco di lavoratori a bassa qualifica, l’intrattenimento con attenzione ai locali del centro città, l’edilizia, il commercio di noleggio di macchinari, carburanti, metalli ferrosi, le attività di giochi, le società che intercettano fondi pubblici e agevolazioni” (Italia Oggi, 26.05.2021), in questo contesto, in questo scenario, non è facile operare nel mercato con una concorrenza sicuramente sleale, non è facile essere franchisor, creare una rete, essere concorrenziali, come non è facile aderire con sicurezza ad una rete di franchising che (come appurato in tanti fatti di cronaca e in ufficiali ricerche e indagini) potrebbe essere gestita (perché acquisita), ma anche creata, da organizzazioni illegali e apparentemente innocue o solide e non è casuale, pertanto, che in molte nazioni la normativa sul franchising prevede una più ampia trasparenza sui manager che gestiscono e guidano le reti di franchising fornendo importanti dettagli sicuramente utili, pur non sufficienti, ma che certamente costituiscono un importante filtro selettivo. Una disposizione che fu riportata nella originaria proposta di riforma della normativa sul franchising promossa dalla associazione IREF Italia (non più operativa), in collaborazione con AZ Franchising e ANCommercialisti e che fu palesemente (e convenientemente) osteggiata da chi avrà avuto interesse ad osteggiarla.

Certamente l’applicazione della legge e delle norme di informazione precontrattuale possono essere uno strumento idoneo alla funzione di selezione per una adesione consapevole, ma, pur senza garanzie di risultati, l’assistenza di un professionista specializzato diventa ancor più stringente e determinante, perché l’adesione ad una rete di franchising è un investimento finanziario (spesso una scelta di vita) e attualmente non esiste un vero e proprio “prospetto informativo” particolarmente dettagliato come quelli obbligatori con gli investimenti finanziari in titoli, fondi comuni, ecc., ad oggi unico punto di riferimento continua ad essere la L.129/2004 integrabile con quanto oggetto di sentenze giurisprudenziali, con quanto ci suggeriscono i provvedimenti AGCM e con quanto di conoscenza professionale di un consulente veramente specializzato.

Marchio comunitario e marchio internazionale: cosa sono

Articolo tratto da AZ Franchising magazine – luglio agosto 2021 a cura di Avv. Patricia de Masi Taddei Vasoli – dMTV LEX

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I marchi sia comunitari che internazionali, sono una entità capace di caratterizzare un’impresa e/o un suo prodotto, rispetto ad altri presenti sul mercato. La registrazione garantisce una protezione nell’intero territorio di riferimento ed una tutela in caso di conflitti legati all’effettiva titolarità del diritto di privativa.

La differenza tra marchio comunitario ed internazionale

La registrazione comunitaria tutela il marchio su tutto il territorio dell’Unione Europea, compresi i Paesi che dovessero entrare a farvi parte in futuro.

 Il marchio comunitario ha una validità di dieci anni dalla data di deposito della domanda e può essere rinnovato per ulteriori periodi di dieci anni.
Il titolare di un marchio comunitario può tuttavia decadere dai suoi diritti, qualora manchi un uso serio ed effettivo del marchio stesso all’interno del territorio dell’Unione, entro cinque anni dalla data di registrazione. 

I vantaggi del marchio comunitario consistono essenzialmente nella procedura unificata di deposito e nella convenienza quanto ai costi di deposito (inferiori rispetto a quelli che sarebbero necessari per la protezione del marchio in tutti i Paesi membri, attraverso singoli depositi nazionali) nonché nel fatto che l’uso del marchio, anche in un solo Paese dell’Unione Europea, purché rilevante per territorio e popolazione, è considerato idoneo a evitarne la decadenza in tutto il territorio dell’Unione. Per contro, un limite importante del marchio comunitario è altresì diretta conseguenza del suo carattere unitario: un’eventuale contestazione alla validità del marchio, anche in uno solo dei Paesi membri, se ritenuta fondata, porta infatti al conseguente rifiuto del marchio comunitario nel suo complesso. 

I marchi nazionali anteriori possono costituire diritti anteriori rispetto a un marchio comunitario e viceversa: l’ufficio non esamina ex officio tali diritti anteriori ma sarà il titolare del diritto anteriore a dover sollevare la questione, presentando un’opposizione entro tre mesi dalla pubblicazione della domanda del marchio comunitario oppure depositando una domanda di dichiarazione di nullità basata su cause relative di nullità. 

Il marchio internazionale

I titolari di un marchio italiano o comunitario, registrati o allo stato di domanda, possono estenderne la tutela nel territorio di uno o più Paesi europei ed extraeuropei appartenenti alla cosiddetta Unione di Madrid, costituita dai Paesi aderenti alla convenzione in base a due trattati (l’Accordo e il Protocollo di Madrid), presentando un’unica domanda di registrazione internazionale del marchio, secondo la procedura amministrata dall’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale di Ginevra (OMPI o WIPO).

Il marchio internazionale ha una validità di dieci anni decorrenti dalla data di concessione e può essere rinnovato per periodi decennali. La domanda di registrazione o di rinnovo di un marchio internazionale, a differenza di quanto previsto per il marchio comunitario, può essere depositata presso le Camere di commercio oppure direttamente presso l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi a mezzo raccomandata a/r; l’unica modalità di deposito attualmente esistente per il marchio internazionale è quella cartacea, utilizzando l’apposita modulistica disponibile sul sito dell’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale di Ginevra. L’UIBM trasmette quindi la domanda a tale Organizzazione che provvede all’esame formale. L’esame sostanziale del marchio spetta invece agli Uffici marchi dei singoli Paesi designati, in conformità alle rispettive normative nazionali. 

È importare ricordare che è prevista la possibilità di effettuare un’estensione territoriale posteriore, al fine cioè di estendere il marchio internazionale, in un secondo tempo, ad altri Paesi non designati nella prima domanda di deposito internazionale: in tal caso, però, la durata della protezione di un’estensione posteriore viene fatta coincidere con la durata della protezione del primo deposito internazionale, in modo da avere un’unica data di scadenza del marchio internazionale. 

L’estinzione può avvenire per tali ragioni:

  • in seguito all’accertamento di vizi che ne determinano la nullità;
  • per decadenza a causa della sua c.d. “volgarizzazione” per perdita della sua capacità distintiva (pensiamo al marchio Biro per penne a sfera o Rimmel per il mascara o Scoch per il nastro adesivo;
  • per illiceità sopravvenuta per sopravvenuta capacità di ingannare il pubblico, soprattutto sulla provenienza dei prodotti o sulle loro qualità;
  • per non uso effettivo.

Il principio della novità: requisito indispensabile per il deposito di un marchio

I marchi sono una entità capace di caratterizzare un’impresa e/o un suo prodotto, rispetto ad altri presenti sul mercato

La disciplina relativa ai marchi e ai diritti di proprietà industriale è contenuta nel D.Lgs.30/2015, modificato dal D.Lgs-15/2019, in vigore dal 23 marzo 2019, qui di seguito DPI. Quando pensiamo alla proprietà industriale ci riferiamo prevalentemente ai marchi, ai modelli e alle invenzioni.

In particolare:

L’art. 1 del CPI dispone che “l’espressione Proprietà Industriale comprende marchi e altri segni distintivi, indicazioni geografiche, denominazioni di origine, disegni e modelli, invenzioni, modelli di utilità, topografie dei prodotti a semiconduttori, informazioni aziendali riservate e nuove varietà vegetali”. 

I marchi vengono quindi citati nella norma insieme ad altri “segni distintivi”, intendendosi con tale espressione qualsiasi entità capace di caratterizzare un’impresa e/o un suo prodotto, rispetto ad altri presenti sul mercato.

Ad esso si applicano anche il Regolamento di attuazione del CPI e gli artt.2569-2571 C.C. oltre alle fonti internazionali e comunitarie tra cui il Reg. UE 1001/2017.

La normativa precisa un principio fondamentale, un requisito indispensabile perché il deposito di un marchio sia valido: il principio della novità.

Non sono nuovi i segni che siano:

1) identici o simili ad un segno già noto, in via non puramente locale, come marchio o segno distintivo di prodotti o servizi identici o affini, se sussiste un rischio di confusione per il pubblico, anche solo potenziale, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni;

2) identici o simili a un segno già noto, in via non puramente locale, come ditta, denominazione o ragione sociale, insegna e nome a dominio usato nell’attività economica, o altro segno distintivo adottato da altri, se sussiste un rischio di confusione per il pubblico, anche solo potenziale, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni;

3) identici ad un marchio già registrato da altri nello Stato o con efficacia nello Stato per prodotti o servizi identici;

4) identici o simili ad un marchio già registrato da altri nello Stato o con efficacia nello Stato per prodotti o servizi identici o affini, se sussiste un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni;

5) identici o simili ad un marchio già registrato da altri nello Stato o con efficacia nello Stato, per prodotti o servizi identici, affini o non affini, quando il marchio anteriore goda nell’Unione europea o nello Stato, di rinomanza e quando l’uso di quello successivo senza giusto motivo trarrebbe indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del segno anteriore o recherebbe pregiudizio agli stessi.

Per maggiori informazioni > AZ Franchising Giugno 2021 / PROPRIETÀ INDUSTRIALE: I MARCHI E IL LORO VALORE NELL’IMPRESA a cura dell’Avv. Patricia de Masi Taddei Vasoli – dMTV LEX

Il contratto franchising: domande e risposte

**di Alessandra Sonnati – Avvocato Frignani Virano e Associati Studio Legale | Articolo completo nell’ultimo numero di AZ Franchising- Giugno 2021

Lo scopo di questo articolo è quello fornire – senza alcuna pretesa di esaustività – una sintetica panoramica delle principali previsioni della Legge 6 maggio 2004, n. 129, che disciplina l’affiliazione commerciale, riassunte in 5 domande e riposte.

1. Come è definito il franchising?

La legge 129/04 definisce il franchising come “… il contratto, comunque denominato, fra due soggetti giuridici, economicamente e giuridicamente indipendenti, in base al quale una parte concede la disponibilità all’altra, verso corrispettivo, di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti di autore, know-how, brevetti, assistenza o consulenza tecnica e commerciale, inserendo l’affiliato in un sistema costituito da una pluralità di affiliati distribuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare determinati beni o servizi”.

2. Quale forma deve avere il contratto di franchising?

Il contratto di franchising deve essere stipulato in forma scritta, a pena di nullità.

3. Qual è la durata (minima) di un contratto di franchising?

Quanto alla durata la legge prevede che “l’affiliante dovrà comunque garantire all’affiliato una durata minima sufficiente all’ammortamento degli investimenti”, durata minima che la legge specifica essere almeno tre anni, salvo evidentemente i casi di risoluzione anticipata per inadempimento di una delle parti.

4.Quali sono gli elementi essenziali del contratto di franchising?

Per quanto riguarda il contenuto, la legge si imita a fornire un elenco degli elementi che il contratto deve, come minimo, regolare, lasciando ampio spazio all’autonomia delle parti nel determinarne il contenuto concreto così come di determinare le altre pattuizioni contrattuali.

L’elenco è diviso in due categorie: elementi essenziali (ovvero elementi che il contratto deve necessariamente disciplinare per non incorrere in nullità) ed elementi eventuali.

Tra gli elementi essenziali troviamo:

  1. l’ammontare delle spese e degli investimenti iniziali che l’affiliato deve sostenere prima di iniziare l’attività;
  2. l’indicazione della specifica del know-how fornito dall’affiliante;
  3. l’indicazione dei servizi resi dall’affiliante in termini di assistenza tecnica e commerciale, progettazione ed allestimento, formazione;
  4. le condizioni di rinnovo, risoluzione o eventuale cessione del contratto.

Tra gli elementi solo eventuali vi sono invece:

  1. le modalità di calcolo e di pagamento delle royalties;
  2. l’eventuale indicazione di un incasso minimo da realizzare da parte dell’affiliato;
  3. l’ambito di eventuale esclusiva territoriale sia in relazione ad altri affiliati, sia in relazione a canali ed unità di vendita direttamente gestiti dall’affiliante;
  4. le eventuali modalità di riconoscimento dell’apporto di know-how da parte dell’affiliato.

5.Quali informazioni deve fornire il franchisor prima della firma del contratto?

Tra gli obblighi posti dalla legge in capo al franchisor c’è quello dell’informativa precontrattuale, previsto dall’art. 4 della legge 129/2004, che impone al franchisor di fornire, almeno trenta giorni prima della sottoscrizione del contratto di affiliazione commerciale, la “copia completa del contratto da sottoscrivere”, corredato da una serie di informazioni quali:

a) i principali dati relativi all’affiliante;

b) l’indicazione dei marchi utilizzati nel sistema, con gli estremi della relativa registrazione o del deposito, o della licenza concessa all’affiliante dal terzo;

c) una sintetica illustrazione degli elementi caratterizzanti l’attività oggetto dell’affiliazione commerciale;

d) una lista degli affiliati al momento operanti nel sistema e dei punti vendita diretti dell’affiliante;

e) l’indicazione della variazione, anno per anno, del numero degli affiliati con relativa ubicazione negli ultimi tre anni;

f) la descrizione sintetica degli eventuali procedimenti giudiziari o arbitrali, promossi nei confronti dell’affiliante e che si siano conclusi negli ultimi tre anni.

Anche se l’art. 4 parla di “allegati” al contratto, le informazioni che precedono possono indifferentemente essere riportate nel contratto oppure negli allegati, così come in un separato documento; l’importante è che l’informativa venga fornita.

RIPRODUZIONE VIETATA

Franchising e trasferimento del know-how | Note legali

di Alessandra Sonnati -Avvocato – Frignani Virano e Associati Studio Legale

In una recente sentenza del Tribunale di l’Aquila i giudici tornano ad occuparsi di franchising e trasferimento di know-how.

Il caso riguardava un franchisee il quale – in sede di opposizione ad un atto di precetto – eccepiva la nullità del contratto di franchising per carenza dei requisiti formali di cui alla legge 129/04 nonché la nullità strutturale del contratto per inesistenza e/o indeterminatezza del suo oggetto costitutivo, vale a dire il know-how che la società madre/franchisor avrebbe dovuto trasferire al franchisee.

Per meglio comprendere la vicenda è utile ricordare che ai sensi dell’art.1, comma 1, della legge 129/2004, “l’affiliazione commerciale (franchising) è il contratto, comunque denominato, fra due soggetti giuridici, economicamente e giuridicamente indipendenti, in base al quale una parte concede la disponibilità all’altra, verso corrispettivo, di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti di autore, know-how, brevetti, assistenza o consulenza tecnica e commerciale….”, intendendosi per know-how “un patrimonio di conoscenze pratiche non brevettate derivanti da esperienze e da prove eseguite dall’ affiliante, patrimonio che è segreto, sostanziale ed individuato; per segreto, che il know-how, considerato come complesso di nozioni o nella precisa configurazione e composizione dei suoi elementi, non è generalmente noto né facilmente accessibile; per sostanziale, che il know-how comprende conoscenze indispensabili all’affiliato per l’uso, per la vendita, la rivendita, la gestione o l’organizzazione dei beni o servizi contrattuali; per individuato, che il know-how deve essere descritto in modo sufficientemente esauriente, tale da consentire di verificare se risponde ai criteri di segretezza e di sostanzialità“.

Il successivo art. 3 elenca poi una serie di elementi che il contratto di franchising deve disciplinare. Tale lista è divisa in due categorie: oggetti essenziali ed oggetti eventuali. Tra gli oggetti essenziali rientra “la specifica del know-how fornito dall’affiliante all’affiliato”.

Tornando al caso concreto, il Tribunale, con un ragionamento non proprio lineare, quanto al “profilo sollevato di invalidità strutturale del contratto, in parte per ragioni riconducibili agli artt. 3 lett.d e 4 lett.d di cui si è cennato, ed in parte in ragione della previsione di cui all’art.1 c.3 lett.a , che individua l’oggetto costitutivo proprio del franchising ovvero del know-how, nel patrimonio di conoscenze pratiche caratterizzato dalla segretezza, sostanzialità ed individualità” è giunto alla conclusione che nel caso di specie non “potevano ritenersi integrati i presupposti della formazione tecnica e della trasmissione del necessario know-how giacché, a fronte di specifica contestazione sul punto, parte opposta limita la produzione documentale a brouchure e attestati di poche ore inidonei a comprovare l’esatto adempimento di quanto concordato e comunque insufficienti rispetto all’obbligazione assunta ed alla ratio stessa del contratto”.

Da tale omissione il Tribunale ha fatto quindi discendere un’ipotesi di inadempimento del franchisor ed ha dichiarato la risoluzione del contratto.

Quello che il Tribunale non spiega è se un valido know-how c’era ma non era stato (validamente e correttamente) trasferito al franchisee oppure se il know-how non c’era o non era descritto in modo esauriente, così da non consentire di verificare la rispondenza dello stesso ai criteri di segretezza e sostanzialità di cui all’art. 1 della legge, nel qual caso saremmo stati in presenza di un’ipotesi di nullità del contratto (come d’altronde prospettato dal franchisee), proprio in virtù delle previsioni dell’ art. 3.4 lett. nonché dell’art. 1 della legge 129/2004, citati peraltro dallo stesso Tribunale.

Esempi in proposito sono dati da due sentenze, una del Tribunale di Milano e l’altra del Tribunale di Bergamo che hanno dichiarato la nullità di un contratto di franchising ritenendo che il know-how non fosse sufficientemente specificato ed esaurientemente descritto.

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L’uso dei social da parte dei franchisees

di Alessandra Sonnati* e Federica Leanza* – *Avvocati – Frignani Virano e Associati, Studio Legale

In un’epoca in cui la “socializzazione” intesa come interazione in presenza tra individui è fortemente limitata non solamente nei rapporti interpersonali privati, bensì anche in ambito commerciale, la presenza on line impatta in modo importante sulle sue possibilità di successo, ed assume un ruolo fondamentale per qualsiasi attività produttiva. Diventa infatti fondamentale mantenere il contatto con il cliente e sviluppare il proprio business attraverso canali alternativi e complementari al punto vendita fisico.

Tale presenza virtuale si declina, da un lato, nella vendita attraverso i canali on line tradizionali (principalmente i siti web aziendali e i marketplace), dall’altro in tutte quelle attività promozionali svolte sui social media, cui eventualmente affiancare il c.d. social commerce (ovvero la possibilità per l’utente di acquistare prodotti direttamente all’interno dei social).

Come si concilia tutto ciò con il contratto di franchising e con l’esigenza di mantenere l’uniformità e l’immagine della rete?

La questione è affrontata solo in parte dalle linee guida al Regolamento 330/2010 ove è previsto che “a qualsiasi distributore deve essere consentito di utilizzare Internet per vendere prodotti” a meno che ciò non si traduca in vendite attive nel territorio riservato di un altro distributore in quanto “l’esistenza di un sito Internet è considerata una forma di vendita passiva in quanto si tratta di un modo ragionevole di consentire ai clienti di raggiungere il distributore. L’esistenza di un sito può produrre effetti al di fuori del territorio o gruppo di clienti del distributore; tuttavia, si tratta di una conseguenza della tecnologia, che consente un facile accesso da qualsiasi luogo. Se un cliente visita il sito Internet di un distributore e lo contatta, e se tale contatto si conclude con una vendita, inclusa la consegna effettiva, ciò viene considerato come una vendita passiva. Lo stesso avviene se un cliente decide di essere informato (automaticamente) dal distributore e questo determina una vendita”.

Come si vede le previsioni delle Linee guida al Regolamento 330/2010 fanno riferimento in modo specifico alle vendite effettuate tramite internet, ciò che lascia scoperte le promozioni e le vendite attraverso i social media.

Nel silenzio delle Linee guida riteniamo che la questione possa essere risolta – in assenza di specifiche pronunce sul punto – applicando in via analogica i principi elaborati per le vendite on-line.

In primo luogo riteniamo di poter escludere che un divieto assoluto di utilizzare i social media per promuovere i prodotti possa essere considerato legittimo. Parafrasando quanto previsto dalle Linee Direttrici si deve infatti considerare che i social media rappresenta uno strumento straordinario per raggiungere clienti più numerosi e diversificati rispetto a quanto avverrebbe utilizzando solo metodi di vendita più tradizionali.

Più delicata invece la questione relativa alla possibilità di vietare l’utilizzo di determinati ed individuati social media. 

Qualche apertura in questo senso si potrebbe forse ipotizzare per i prodotti di lusso (sulla scorta della nota sentenza Coty, cui hanno fatto seguito diverse pronunce dei giudizi nazionali nello stesso segno) nonché nei casi in cui un eventuale divieto fosse giustificato da ragioni oggettive e non discriminatorie (si pensi a quei canali social che vengono utilizzati da uno specifico pubblico – ad esempio i giovanissimi – e che potrebbero quindi non essere in linea con il target di riferimento dei prodotti).

Quanto precede sempre comunque nel rispetto dei criteri di adeguatezza e necessarietà rispetto all’obiettivo di tutelare l’immagine del prodotto.

Si può invece ragionevolmente ritenere possibile introdurre delle limitazioni all’uso dei social media da parte dei franchisees, in quanto anche per i social media dovrebbero valere le medesime regole e limiti per la costruzione di un sito web, l’utilizzo di piattaforme di terzi e, in generale, per le attività promozionali.

Ad esempio potrà sempre essere richiesto al franchisee che l’attività sui social rimanga coerente con l’immagine del franchisor (paragrafo 54 delle Linee Guida al Regolamento).

Parimenti dovrebbe essere possibile imporre al franchisee determinati standard qualitativi relativamente alla sua attività sui social (così come è possibile farlo in relazione ad un punto vendita o in relazione ad un sito internet, come ribadito dal paragrafo 54 delle Linee Guida al Regolamento).

In tale prospettiva riteniamo possibile che il franchisor possa ad esempio pretendere dal franchisee il rispetto di determinati standard o di uno specifico lay-out per la creazione della sua pagina, di utilizzare la pagina solo ed esclusivamente per promuovere i prodotti del franchisor, o di pubblicare solo foto dei prodotti “ad alta risoluzione” o fornite dal franchisor stesso o, ancora, di non pubblicare sulla pagina riferimenti a marchi diversi da quelli del franchisor, che possano creare confusione o sminuirne il valore.

Al contrario, ove oltre all’attività di promozione su social venisse effettuata anche attività di vendita dei prodotti, dovrebbe invece rimanere ferma la possibilità di imporre un divieto ogni qual volta l’attività sui social, per le modalità con le quali viene svolta, determinasse di fatto delle vendite attive nei territori o a gruppi di clienti esclusivi di altri distributori/franchisees (paragrafo 53 delle Linee Guida al Regolamento).

I franchisors quando redigono i loro contratti dovranno quindi prestare la giusta attenzione e disciplinare contrattualmente le modalità di utilizzo da parte dei franchisee di internet e dei social media per pubblicizzare e vendere i prodotti, cercando di contemperare le esigenze di promozione con quelle di mantenere l’uniformità e l’immagine di tutta la rete.

Importante sarà inoltre sensibilizzare i franchisees sull’importanza di adempiere a tutti gli obblighi di legge connessi (ivi inclusi quelli derivanti dalla legge sulla privacy) nonché sull’importanza di prestare attenzione ai contenuti della pagina (evitando di pubblicare materiali o contenuti che possano essere pregiudizievole per il marchio o la rete o che possano violare diritti di terzi o essere contrari al comune senso del pudore o offensivi).

 

Diventare franchisor: le 10 domande a cui devi saper rispondere

Articolo a cura dell’Avvocato Alessandra Sonnati – Frignani Virano e Associati Studio Legale

Aumenta l’interesse per il franchising, soprattutto da parte di coloro che sono alla ricerca di possibilità di impiego alternative. Come fare allora a capire se ci sono i presupposti per espandere la propria attività attraverso il franchising?

10 interrogativi per capire se sussistono i presupposti per espandere la propria attività attraverso il franchising

  1. La mia idea di business è valida?

Per capire se la propria idea di business “funziona” meglio di quella di un altro sarà opportuno affidarsi ad un’indagine di mercato, per analizzare il mercato di riferimento, le aree ed i settori ancora scoperti, gli operatori che in tale mercato già operano e così via. Altrettando opportuno sarà redigere uno studio di fattibilità economico-finanziaria.

  1. Conosco la normativa sul franchising?

Per chiunque voglia intraprendere un’attività in franchising è fondamentale conoscere la normativa di riferimento. In Italia il franchising è regolato dalla legge 129/2004, che definisce il contratto di franchising, regola i contenuti minimi del contratto e prevede specifici obblighi di informativa in capo all’affiliante. Le previsioni di cui alla legge sul franchising dovranno poi essere integrate con la specifica normativa che regolamenta il settore di riferimento.

  1. Qual è il know-how che posso offrire agli affiliati? Cosa distingue la mia attività da quella degli altri concorrenti?

Il know-how è essenziale per realizzare lo schema economico sul quale si basa lo sviluppo del franchising. Nel caso in cui un imprenditore consideri di scegliere il franchising come sistema per espandere la propria attività, questi deve quindi innanzitutto poter contare su un patrimonio di conoscenze pratiche derivanti da esperienze e da prove eseguite, che le abbia caratteristiche di originalità e differenziazione rispetto alla concorrenza, non solo in termini di offerta ma anche in termini di metodi commerciali e procedure.

  1. Ho già definito il Manuale Operativo?

Il know-how viene normalmente racchiuso nel Manuale Operativo, che è lo strumento che consente ai franchisee di “replicare” la formula in maniera uniforme. Per essere replicato il know-how deve essere individuato e codificato: l’aspirante franchisor dovrà quindi considerare come i franchisees potranno mettere in pratica il know-how e quali processi, metodi e procedure includere nel Manuale Operativo.

  1. Qual è l’immagine che desidero abbiano i miei punti vendita?

L’aspirante franchisor dovrà inoltre definire gli aspetti legati all’immagine dei punti vendita: lo stile dell’arredamento, i colori, le decorazioni.

  1. Quale marchio utilizzerò? Il mio marchio è registrato?

La realizzazione di una rete in franchising non può poi prescindere dalla disponibilità di un segno distintivo (da utilizzarsi come marchio e come insegna) e dalla registrazione dello stesso. La registrazione infatti attribuisce al titolare del marchio registrato il diritto di a terzi A l’uso.

  1. Quali servizi dovrò fornire all’inizio e durante il rapporto? Quali cambi devo apportare alla mia struttura organizzativa per avviare una rete in franchising?

Si tratta di un aspetto questo spesso sottovalutato nella fase di avvio di una rete in franchising. L’aspirante franchisor dovrà aver bene a mente i servizi che dovrà prestare agli affiliati, sia in termini di fornitura di prodotti (elemento questo presente non solo nel franchising di distribuzione di beni ma anche nel franchising di servizi, in quanto quasi sempre l’erogazione dei servizi è accompagnata da beni strumentali che l’affiliato deve acquistare) che in termini di  formazione ed assistenza tecnica e commerciale.

  1. Ho sperimentato sul mercato la mia formula commerciale?

La legge richiede che l’aspirante franchisor debba sperimentare sul mercato la propria formula commerciale prima di avviare una rete in franchising.

  1. Qual è il profilo ideale dei miei franchisees?

Opportuno è poi definire preventivamente qual è il profilo del franchisee ideale per gestire l’attività che si vuole sviluppare in franchising.

  1. I miei consulenti di fiducia possono assistermi?

Da ultimo sarà importante farsi assistere da consulenti (avvocati, commercialisti o consulenti di impresa) che abbiano una specifica esperienza in materia di franchising, sia per quanto riguarda agli aspetti legali (inclusa la redazione del contratto di franchising), che per quanto riguarda gli aspetti finanziari.

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ARTICOLO COMPLETO NEL NUMERO DI OTTOBRE DI AZ FRANCHISING

 

10 spunti per interfacciarsi meglio con il sistema creditizio

Dieci consigli utili per instaurare un buon rapporto con gli istituti di credito

*a cura di Roberto Colavecchio – Ratinglab srl – www.ratinglab.eu

  1. Partite dai dati oggettivi interrogando le principali banche dati circa la vostra azienda. Richiedete loro la reportistica più completa, non è raro infatti che possiate venire a conoscenza di cose che non sapevate o non ricordavate. Analizzate anche il vostro settore di appartenenza ed il numero di richieste sulla vostra posizione effettuate da banche e finanziarie.
  2. Richiedete e controllate la vostra Centrale Rischi verificando la correttezza dei dati riportati e nell’eventualità provvedete alla rettifica delle errate segnalazioni fornendo comunicazione delle stesse alle altre banche affidanti. In ipotesi di negatività datene spiegazioni a tutti gli istituti.
  3. Rianalizzate i vostri bilanci valutandoli come veicolo negoziale con gli istituti di credito. Predisponete e fornite alle controparti bancarie una reportistica esplicativa della reale situazione reddituale, finanziaria e patrimoniale dell’azienda
  4. Assunti i dati presentati nei tre punti precedenti tentate in modo critico di autovalutarvi. Attraverso tale procedura potrete rendervi conto della vostra reale capacità negoziale e sarete in grado di gestir al meglio il vostro rating. Infine, sarete in grado di predisporre al meglio la reportistica integrativa cui al precedente punto
  5.  Ciclicamente ed ogni caso al verificarsi di eventi significativi per l’azienda mettete a parte il sistema creditizio della vostra situazione e dei piani di sviluppo.
  6. Controllate con cadenza almeno trimestrale la vostra centrale rischi, il rating attribuitovi dalle banche, l’esistenza e la relativa scadenza delle eventuali linee temporanee, le eventuali rate/canoni che risultassero scaduti e impagati (nel caso ve ne fossero chiederne il dettaglio: la data di scadenza e l’importo) e le condizioni economiche applicate per ogni singola linea
  7. In ipotesi di richiesta di nuovi finanziamenti valutate la vostra effettiva capacità di rimborso. La marginalità è sufficiente a garantire il rimborso dei debiti?
  8. Qualora fosse necessario aprire nuovi rapporti bancari ponderate la scelta della controparte e predisponete una presentazione aziendale contenente la storia dell’attività, il curriculum vitae dei soci dell’imprenditore e del management ed un business plan sia discorsivo che numerico sui futuri e futuribili piani di sviluppo.
  9. Vagliate a sussistenza delle garanzie a supporto dell’indebitamento bancario e ponderate se sia necessario o comunque vantaggioso integrarle con ulteriori strumenti quali i consorzi fidi o il fondo di garanzia.
  10. Ultimo, ma sicuramente non per importanza, valutate la patrimonialità dell’azienda ponderandola con l’indebitamento, con il totale del passivo e confrontandola con le immobilizzazioni per capirne il reale grado di copertura, tenendo presente che il patrimonio netto ha una forte valenza sul Capitale Circolante Netto. Rammentate sempre che questo dato rappresenta il “Biglietto da Visita” dell’azienda.

Articolo completo nell’ultimo numero di AZ Franchising

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