L’essenzialità del know-how nel contratto franchising

Franchising, nullo il contratto se non è trasferito il know-how: ancora una conferma

Il Tribunale di Bologna ribadisce la prevalente e storica tesi circa l’essenzialità del know-how e del suo necessario trasferimento, pur in presenza della nota Sentenza della Cassazione che ha considerato, invece, essenziale la sperimentazione della formula commerciale

di Mirco Comparini – Commercialista e Consulente Franchising in Livorno

Era il 2018 quando, dalle colonne di AZ Franchising con l’articolo “Franchising e know how la Cassazione complica”, fu commentata una importante Sentenza della Cassazione (n.11256/2018). La Sentenza in questione si pose in contrapposizione alla dottrina maggioritaria e alla copiosa giurisprudenza non fornendo assolutamente un chiarimento al contesto interessato a definire maggiormente i parametri e i confini per non rischiare un annullamento del contratto o, comunque, per identificarne i reali e certi requisiti di validità.

DALLA CASSAZIONE
In pratica, secondo la Corte, proprio dall’articolo 1, comma 1 (Definizione), legge n.129/2004, si può evincere che il contratto di affiliazione commerciale non riguardi cumulativamente tutti gli aspetti regolati dalla norma, ma, sempre secondo la Corte, da tale articolo si rileva solamente la concessione all’affiliato della disponibilità di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale, cioè, la formula commerciale sperimentata, che può concernere uno o più profili elencati dalla norma stessa, nell’ottica, poi, di inserire l’impresa affiliata in una articolata rete territoriale. Sussistendo tale insieme, ben può quindi configurarsi un contratto di franchising privo della clausola concernente la trasmissione del know-how dal franchisor al franchisee.

DAL TRIBUNALE DI BERGAMO

Da questa Sentenza è poi derivata quella giunta dal Tribunale di Bergamo che nel 2019 mise in rilevo che è “la formula commerciale sperimentata a costituire l’elemento essenziale e sempre imprescindibile di tale contratto. La formula commerciale è descritta come l’insieme, il quale può essere variamente composto, “di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti di autore, know-how, brevetti, assistenza o consulenza tecnica e commerciale”.
Non solo, ma tra le altre importanti affermazioni, il Tribunale di Bergamo ebbe modo di specificare che, nonostante l’articolo 3 (Forma e contenuto del contratto), L.129/2004, non lo preveda tra gli elementi obbligatori da inserire nel testo contrattuale, per il caso in contenzioso “Nessuna precisazione è inserita nel contratto – né vi sono allegazioni in tal senso da parte della convenuta – sulla consistenza della formula commerciale costituente l’oggetto del contratto di affiliazione (in termini, per esempio, di strategie per la gestione delle risorse umane e dei contatti o di norme comportamentali standardizzate, volte a fidelizzare l’utenza e ad agevolare il processo di avviamento e di mantenimento dell’attività)“.
Questa che ormai sembrava una nuova “tendenza” della giurisprudenza, oggi trova una posizione contraria che riposiziona il tutto sulla situazione precedente.

DAL TRIBUNALE DI BOLOGNA

Infatti, dopo la nota Sentenza della Cassazione è il Tribunale di Bologna che torna a ribadire la prevalente e storica tesi circa l’essenzialità del know-how e del suo necessario trasferimento. Nella vicenda, curata dallo Studio Legale Giovanni Adamo, pur dovendo considerare molto importante i molti aspetti che la stessa Sentenza evidenzia, il Tribunale ha analizzato e si è soffermato, per espresso richiamo da parte del convenuto, sul contrasto giurisprudenziale creatosi, appunto, dal maggio 2018, cioè, proprio da quando è giunta la citata Sentenza della Cassazione, evidenziando come “solo all’esito del rigetto delle istanze di prova e dunque dell’istruttoria, e richiamando una isolata pronuncia di legittimità postasi in dichiarato contrasto con la dottrina maggioritaria (Cass., sez. III, ord. 10 maggio 2018, n. 11256, discussa all’udienza del 13 dicembre 2018), (..), la convenuta, modificando la sua originaria tesi difensiva, in comparsa conclusionale ha inteso contrastare la domanda di nullità in base all’argomento secondo cui il trasferimento del know how dall’affiliante all’affiliato – contrariamente a quanto sostenuto dalla prevalente dottrina e giurisprudenza – non è un elemento essenziale del contratto di franchising” e ha anche aggiunto che “nella specie non vi era trasferimento di know how previsto contrattualmente”.

In pratica, pertanto, il Tribunale di Bologna ha voluto specificare come la lettura (successivamente) esposta dalla parte risultata soccombente, fosse riconducibile, in primis, ad una dottrina minoritaria che, seppur recepita da una Sentenza della Corte di Cassazione, non risultava e non appariva, in secondo luogo, assolutamente persuasiva anche nell’interpretazione data dalla giurisprudenza maggioritaria.
Pertanto, si conferma, il franchising è nullo se manca la previsione del trasferimento del know-how, quindi, la stessa presenza del know-how costituisce una caratteristica essenziale e fondamentale in assenza della quale non sarebbe neanche possibile il trasferimento stesso.
Oltre a ciò, quello che colpisce nella Sentenza è anche un altro aspetto da ritenersi alquanto grave e che può veramente rendere l’idea di quanto il tema franchising costituisca ancora un tema pericolosamente sconosciuto anche e soprattutto da chi intende trattarlo e da chi è convinto di poterlo trattare. Ovviamente, il tutto a discapito di franchisor e franchisee, incluso i potenziali.
Il riferimento è ad un passaggio simbolico e, nello specifico, riferito al Manuale Operativo: “…circa l’asserito mancato trasferimento del know-how. Controparte, giocando sui nomi per confondere il lettore, riferisce che “nella citazione non si contesta l’esistenza del Manuale di Vendita, ma del Manuale Operativo. Non spiega però, né si comprende, cosa avrebbe dovuto contenere questo fantomatico Manuale Operativo, di diverso, al di là del titolo, rispetto a quanto trasferito dall’affiliante. E’ già stato evidenziato, in comparsa, come siano stati trasmessi alla ditta attrice, il “Manuale di Vendita”, tutti i “Manuali Tecnici” e i “Corsi di Formazione”, level A e level B, le “Condizioni Generali di Vendita” e “Marketing Prodotti Xxxx” e “Tecniche di Vendita”“.
A quanto riportato sopra, la linea difensiva (perdente) prosegue con una “enfatizzazione” di tali documenti che niente può (e ha potuto) fare con la necessaria conoscenza di cosa effettivamente sia un Manuale Operativo nel franchising, cosa contenga, a cosa serva, come si formi, come si costruisca, ecc., ecc. esprimendo, così, una lacuna totale di chi ha provveduto alla ideazione, alla costruzione e alla messa sul mercato di quel sistema di franchising oggetto di contenzioso. Una lacuna integrata, salvo un vano tentativo di difesa, anche nella fase e nella strategia difensiva, sulla cui scelta potremmo, comunque, opinare.

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La durata del contratto franchising

Determinato o indeterminato? quale durata scegliere per il contratto franchising

 Nel momento della stipulazione del contratto, il franchisor deve prestare la massima attenzione alla tipologia di contratto a cui affidarsi, poiché la scelta di una tipologia rispetto ad un’altra comporta ulteriori condizioni di carattere contrattualistico

Avv. Paolo Fortina e dott.ssa Ilaria Secchiatti*

Nell’ordinamento giuridico italiano si distinguono due tipologie di contratto: da un lato il contratto a tempo determinato, caratterizzato dalla previsione di una specifica scadenza temporale, decorsa il quale il contratto si scioglie e dall’altro il contratto a tempo indeterminato, privo di qualsivoglia scadenza fissa.

Nel XXI secolo si è sempre più fatta strada nei rapporti commerciali la preferenza alla stipula di contratti a tempo determinato, piuttosto che di contratti a tempo indeterminato per una serie di vantaggi economici e strategici.

Ad esempio in Italia, l’affiliante e l’affiliato generalmente stipulano un contratto di franchising con una durata media di sei anni.

Il contratto a tempo determinato è capace di spronare maggiormente il franchisee a migliorare l’attività esercitata al fine di assicurarsi la prosecuzione e, dunque, il rinnovo contrattuale da parte del franchisor.

La prospettiva di tenere aperta la porta del “rinnovo contrattuale” rafforza la posizione del franchisor, il quale potrà sfruttare la stessa e così rinegoziare il contenuto del regolamento contrattuale alla naturale scadenza dello stesso, approfittando dell’interesse del franchisee a preferire di rinnovare il rapporto contrattuale in essere a nuove condizioni, piuttosto che perdere il contratto di franchising e affrontare i rischi di una nuova attività.

Nel momento della stipulazione del contratto, il franchisor deve prestare la massima attenzione alla tipologia di contratto a cui affidarsi, poiché la scelta di una tipologia rispetto ad un’altra comporta ulteriori condizioni di carattere contrattualistico.

Infatti, solitamente nel caso in cui il franchisor scelga di stipulare un contratto a tempo determinato potrà prevedere una clausola a contenuto variabile che contempli il rinnovo o la proroga, i tempi e le modalità del loro esercizio. Mentre nel caso in cui scelga di stipulare un contratto a tempo indeterminato sarà necessario disciplinare, per un corretto uso, una clausola di recesso a favore di entrambe le parti.

Per quanto riguarda la prima tipologia di contratto di franchising, ossia a tempo determinato, la durata del contratto di franchising è disciplinata al terzo comma dell’art. 3 della L. 129/2004, il quale si limita a prevedere un minimo di durata che il franchisor ha l’obbligo di rispettare. Infatti il terzo comma stabilisce che “qualora il contratto sia a tempo determinato, l’affiliante dovrà comunque garantire all’affiliato una durata minima sufficiente all’ammortamento dell’investimento e comunque non inferiore a tre anni.

La norma richiamata esprime due requisiti fondamentali: la durata minima deve essere sufficiente a far si che il franchisee riesca a realizzare l’ammortamento degli investimenti e la durata di margine non può essere inferiore a 3 anni.

È evidente come il Legislatore, attraverso la formulazione in modo generico e lapidario della norma richiamata, abbia voluto intervenire sulla disparità di potere contrattuale di cui gode il franchisor nella fase successiva alla sottoscrizione del contratto. Infatti, l’assenza di una durata contrattuale minima permetterebbe al franchisor di manipolare a suo piacimento il franchisee, facendo accettare a quest’ultimo condizioni svantaggiose di fronte alla minaccia occasionale o costante del franchisor di porre  anticipatamente fine al rapporto contrattuale o di non rinnovare il contratto stesso. In questo modo il franchisor andrebbe a creare semplicemente un burattino, invece che un alter ego, che come è noto, è la carta vincente che sta dietro al contratto di franchising.

Analizzando il contenuto della norma in questione emergono spontaneamente due domande: che cosa si intenda per investimento e quali siano i criteri che incidono sulla determinazione di durata necessaria per l’ammortamento.

Con il termine “investimento” il Legislatore si riferisce plausibilmente ai soli costi di impianto, inclusa l’eventuale fee di ingresso, mentre sono esclusi i costi di gestione.

Per quanto riguarda il secondo quesito, non è possibile formulare una risposta omogenea, poiché le valutazioni di adeguatezza del tempo necessario, affinché si realizzi l’ammortamento, sono strettamente legate alla tipologia di ambito in cui si andrà ad operare.

Dunque, varia da caso a caso.

Per tale ragione, è opportuno che le parti stabiliscano la durata del contratto, tenendo a mente la tipologia di rete commerciale, le sue varianti rispetto ad altri settori di mercato, il luogo e l’ampiezza della rete stessa e, nel caso, avvalendosi di un esperto o di una perizia tecnica che tenga conto di tutti gli elementi più incisivi.

Nel caso in cui il franchisor e il franchisee abbiano previsto un termine di durata del contratto inferiore a tre anni oppure un termine superiore a tre anni, ma inferiore a quello sufficiente per l’ammortamento degli investimenti effettuati dal franchisee, si producono una serie di conseguenze in base al compiersi o non dell’ammortamento degli investimenti.

Innanzitutto, il mancato rispetto del dispositivo dell’art. 3 della Legge n. 129/2004 produce sempre la nullità del contratto, poiché si realizza un’ipotesi di violazione di una norma imperativa.

In secondo luogo, essendo possibile stabilire, con la dovuta accuratezza, la corretta durata del contratto di franchising sulla base di un dato variabile, quale l’ammortamento degli investimenti, il franchisor sarà tenuto al risarcimento dei danni in favore del franchisee, qualora il franchisor abbia sospeso l’adempimento del contratto prima del termine utile all’ammortamento degli investimenti. Altrimenti, in caso contrario, il franchisor non sarà responsabile nei confronti del franchisee, dato che l’ammortamento si è compiuto.

Ora, trattiamo dell’ipotesi in cui venga stipulato un contratto a tempo indeterminato, che si fonda sul principio generale che esclude la perpetuità dei vincoli obbligatori.

Solitamente, in questo caso interviene l’istituto del recesso che si distingue in due tipologie: il recesso ordinario e il recesso straordinario.

Il recesso ordinario è la facoltà di porre termine al contratto in virtù della mera volontà di una delle parti, senza che si sia realizzata un’ipotesi di inadempimento a carico di una delle parti.

Tuttavia sarà necessario che tale facoltà, esercitabile anche in assenza di un’espressa clausola contrattuale, sia esercitata con un congruo preavviso al fine di scongiurare l’ipotesi di danneggiare una delle parti contrattuali e di conseguenza adire le vie giudiziarie.

Naturalmente, il recesso non può essere esercitato prima del limite disciplinato dall’articolo 3 della Legge n. 129/2004. Ciò significa che la norma, anche se indirettamente, esclude la possibilità di recedere prima dello scorrere dei tre anni.

Un caso che si verifica abbastanza spesso è quello in cui, una volta scaduto il termine finale di un contratto di franchising a tempo determinato, le parti proseguano la propria relazione commerciale. In questo caso, il contratto diventa automaticamente a tempo indeterminato, e quindi, come si è visto prima, entrambe le parti possono recedere, previo congruo preavviso, anche in assenza di una previsione contrattuale in tale senso.

Il recesso straordinario (o per giusta causa), diversamente da quello ordinario, presuppone un inadempimento imputabile a una delle parti, in grado di minare per sempre il rapporto fiduciario tra le parti, tipico del contratto di franchising.

Un’altra ipotesi in cui opera il recesso straordinario è quando si verifica un evento tale da non consentire la prosecuzione del rapporto.

Chiaramente come si evince dall’analisi dell’articolo, non esiste una regola standard che garantisca di non cadere in errore quando si tratta di stabilire la durata del contratto di franchising, poiché l’elemento chiave che incide sulla durata del contratto è dato dal tempo necessario all’affiliato per raggiungere il c.d. break even, e l’ammortamento degli investimenti.

Quindi, stabilire la durata di un contratto di franchising implica una serie di operazioni che non sono circoscritte semplicemente ad un dato formale prevista dalla Legge n. 129/2004, ma si tratta di un’operazione che deve essere coerente al modello di business, oggetto del rapporto contrattuale e per tale ragione necessita della dovuta attenzione.

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Il franchisor è responsabile dei comportamenti del franchisee?

Brevi note alla sentenza del Tribunale di Perugia del 4 Aprile 2019

L’omissione colposa del controllo da parte del franchisor può comportare una sua responsabilità extracontrattuale nei confronti del cliente per fatto del franchisee

di Alessandra Sonnati – Avv. – Frignani Virano e Associati – Studio Legale

Il contratto di franchising non fa perdere alle parti la loro reciproca indipendenza, come anche confermato dall’art. 1, comma 1 della legge 129/2004. Siamo pertanto di fronte ad attività imprenditoriali autonome le une dalle altre. Le conseguenze dell’autonomia ed indipendenza del franchisor rispetto al franchisee si misurano nei confronti di tutti i terzi con i quali il franchisee viene in contatto (fornitori, dipendenti, clienti, pubbliche amministrazioni, ecc.), i quali – di norma – avranno azione soltanto nei confronti del franchisee e non nei confronti del franchisor.
Tale autonomia incontra tuttavia dei limiti. Uno dei cardini su cui ruota il franchising è costituito dalla concessione in uso, a favore del franchisee, dei segni distintivi del franchisor – in primo luogo marchio e insegna – e, più in generale, dalla stretta integrazione che viene a stabilirsi tra impresa-madre e imprese affiliate.
Tale condivisione è suscettibile di creare nel cliente un affidamento sia in ordine all’identità tra franchisor e franchisee (quando il cliente entra in contatto con il franchisee credendo di trattare invece direttamente con la casa madre-franchisor) sia sull’esistenza in capo al franchisee dei medesimi standard qualitativi e di correttezza commerciale del franchisor. Da tali affidamenti deriva quindi un onere di controllo per il franchisor sulle persone dei franchisees e sulle modalità di svolgimento della loro attività. L’omissione colposa di tale controllo da parte del franchisor può comportare una sua responsabilità extracontrattuale nei confronti del cliente per fatto del franchisee.
La semplice condivisione dei segni distintivi, in assenza di condotte colpose da parte del franchisor, non è tuttavia sufficiente a far sorgere automaticamente una qualche responsabilità nei confronti dei terzi in capo all’affiliante per azioni od omissioni del franchisee.
Quanto precede trova conferma in una recente sentenza del Tribunale di Perugia (Trib. Perugia, 4 Aprile 2019).
Un cliente si era rivolto per la realizzazione di un impianto fotovoltaico ad un punto in franchising. Il franchisee non aveva ultimato i lavori in tempo utile per far in modo che il cliente ottenesse una tariffa incentivante, in quanto l’entrata in esercizio dell’impianto era avvenuta successivamente alla scadenza del termine fissato per legge per l’ammissione agli incentivi in questione. Il cliente chiamava quindi in causa sia il franchisee che il franchisor “in quanto responsabile del fatto del proprio affiliato commerciale ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. per violazione dell’affidamento riposto dal cliente sull’appartenenza alla rete commerciale” chiedendone la condanna in solido al risarcimento del conseguente danno patrimoniale.
Il Tribunale osserva in primis quanto segue: “…il contratto di affiliazione commerciale si distingue da quello di distribuzione proprio per il fatto che, nel franchising, una parte concede all’altra la disponibilità, verso corrispettivo, di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti di autore, know-how, brevetti, fornendo inoltre assistenza o consulenza tecnica o commerciale, e così inserendo l’affiliato in un sistema costituito da una pluralità di soggetti distribuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare determinati beni o servizi (art. 1, L. n. 129 del 2004 e D.M. n. 204 del 02 settembre 2005), ne segue che – sia nel caso di franchising di beni che in quello, come nel caso in esame, di franchising di servizi, nonostante l’uso comune del marchio, affiliante e affiliato sono soggetti distinti dal punto di vista economico e giuridico …”.
Ne consegue, secondo il Tribunale, che in difetto di allegazione di specifici elementi di colpa a carico del franchisor, quali ad esempio l’inadeguatezza del know-how e delle procedure tecniche ed operative per la gestione della clientela o l’inadeguatezza della scelta dell’affiliato, profili che, entrambi, non erano stati oggetto di doglianza nel caso portato all’attenzione del Tribunale “non possa condividersi l’assunto che ne fonda la responsabilità per il fatto dell’affiliato sul principio dell’apparenza. Tale criterio opera, difatti, a tutela dell’affidamento incolpevole di colui che, sulla base di circostanze colposamente ingenerate dal soggetto di cui altri spendeva il nome, abbia avuto la ragionevole convinzione che il potere di rappresentanza sia stato effettivamente e validamente conferito al rappresentante apparente (Cfr. Cass,. 18519 del 13/07/2018). Esso, quindi, non può trovare applicazione nell’ipotesi in esame, inerente a due soggetti giuridici autonomi e distinti, ed immediatamente apprezzabili come tali dalla clientela, sì che la scelta dell’affiliato in quanto inserito in una rete di affiliazione non determina, per ciò solo, una responsabilità dell’affiliante per il fatto dell’affiliato che sarebbe una non ammissibile ipotesi di responsabilità di posizione”.
Applicando i suddetti principi il Tribunale ha quindi rigettato la domanda svolta nei confronti del franchisor.

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Trasporto merci in Italia: nuove opportunità

Il Ministero delle Infrastrutture e Trasporti ha pubblicato un bando che concede un contributo a fondo perduto per acquisto di automezzi per le imprese

Questo mese, analizziamo nel dettaglio questa nuova opportunità che può essere utile a tanti nostri lettori che, di necessità o virtù, sono quotidianamente alle prese con le problematiche logistiche legate alle loro attività.

di Francesca Paleari – Founder & General Manager Obiettivo Sviluppo

Qual è la fotografia del trasporto merci in Italia oggi, a fine 2019?

La riposta, purtroppo, è ancora ed inesorabilmente (e aggiungerei immancabilmente) la stessa: circa il 75% del traffico merci (quasi 900 milioni di tonnellate all’anno) viaggia ancora su gomma. Non decolla il trasporto ferroviario, quasi inesistente quello sulle vie d’acqua. Siamo ancora uno dei paesi meno “green” per quanto riguarda il trasporto merci, con pensanti ripercussioni ambientali ed economiche. Una pesante eredità che grava sul consumatore finale (e sull’economia in generale) dovuta a costi che vanno ben oltre la media europea (carburante, pedaggi autostradali in primis ma anche il costo del lavoro). Non da ultimo, un ricambio generazionale che non c’è: con difficoltà oggi troviamo giovani disposti a sacrificarsi per un lavoro poco remunerativo e molto impegnativo e rischioso.
Non solo per questo, il MIT (Ministero delle Infrastrutture e Trasporti) cerca di intervenire in un settore (l’ennesimo) in crisi, attraverso la pubblicazione di un bando che concede un contributo a fondo perduto per acquisto di automezzi per le imprese di autotrasporto di merci conto terzi.
Questo mese, analizziamo nel dettaglio questa nuova opportunità che può essere utile a tanti nostri lettori che, di necessità o virtù, sono quotidianamente alle prese con le problematiche logistiche legate alle loro attività.
Il bando, appena aperto, prevede la presentazione delle domande sino al 31/03/2020.
Il territorio di riferimento è nazionale, valido per tutta Italia e per tutte le categorie di possibili beneficiari (Grande Impresa, PMI, Micro Impresa, sia afferenti al settore servizi, sia per le società No Profit).
I contributi possono essere chiesti dalle imprese di autotrasporto merci per conto di terzi attive in Italia (ed in regola con i requisiti di iscrizione all’Albo degli autotrasportatori e al REN).

La tipologia di interventi ammissibili sono :

a) acquisizione, anche mediante locazione finanziaria, di autoveicoli nuovi di fabbrica, adibiti al trasporto di merci di massa complessiva a pieno carico pari o superiore 3,5 ton a trazione alternativa a metano CNG, gas naturale liquefatto LNG, elettrica – Full Electric e ibrida (gasolio/elettrico);

b) radiazione per rottamazione di automezzi di massa complessiva a pieno carico pari o superiore a 11,5 ton, con contestuale acquisizione, anche mediante locazione finanziaria, di automezzi industriali pesanti nuovi di fabbrica, adibiti al trasporto merci di massa complessiva pari o superiore alle 7 ton, di categoria ecologica Euro VI;

c) acquisizione, anche mediante locazione finanziaria, di rimorchi e semirimorchi nuovi di fabbrica, per il trasporto combinato ferroviario rispondenti alla normativa UIC 596-5 e per il trasporto combinato marittimo dotati di ganci nave rispondenti alla normativa IMO, dotati di dispositivi innovativi volti a conseguire maggiori standard di sicurezza e di efficienza energetica.

d) acquisizione, anche mediante locazione finanziaria, di casse mobili e rimorchi o semirimorchi porta casse (a gruppi di otto casse mobili e un rimorchio o semirimorchio), così da facilitare l’utilizzazione di differenti modalità di trasporto in combinazione fra loro, senza alcuna rottura di carico.

Il presente bando, agevola sotto forma di contributo a fondo perduto, le seguenti entità di spesa:

a) il contributo per questa tipologia di bene varia in funzione del tipo di alimentazione e della massa a pieno carico del mezzo e parte da 4.000 euro fino a 20.000 euro per ogni veicolo;

b) il contributo per questa tipologia di investimento ammonta a 5.000 euro per ogni veicolo tra 7 e 16 ton e di 12.000 euro per ogni veicolo superiore a 16 ton;

c) il contributo, in percentuale sul costo complessivo sostenuto, avrà un ammontare massimo di 5.000 euro;
d) Il contributo per ciascun insieme di 8 casse e un rimorchio ammonta a 8.500 euro;

La soglia massima del contributo a fondo perduto per ciascuna impresa è pari a 550.000 Eur;La dotazione finanziaria totale messa a disposizione dal Ministero è pari a 25.000.000 Eur. Una buona opportunità per chi ha già nel cassetto nuovi progetti. Per ulteriori informazioni contattare Obiettivo Sviluppo.

 

Descrizione e sperimentazione: elementi essenziali del contratto franchising

di Alessandra Sonnati – Avvocato – Frignani Virano e Associati Studio Legale

L’art. 3 della legge 129/2004 elenca una serie di elementi che il contratto di franchising deve disciplinare. Tale lista è divisa in due categorie: oggetti essenziali ed oggetti eventuali. Tra gli oggetti essenziali rientra la specifica del know-how fornito. Tale specifica non può svilirsi in formule eccessivamente generiche e fumose, ma deve essere descritto in modo esauriente, tale, da un lato, da consentire di verificare se esso corrisponde ai criteri di segretezza e sostanzialità di cui all’art. 1 della legge e dall’altro, da mettere l’aspirante affiliato nelle condizioni di conoscere preventivamente in cosa consiste il know-how associato a quella determinata formula che gli verrà trasferito (e per il quale affiliato paga un corrispettivo).

Sempre l’art. 3 prevede inoltre l’obbligo di sperimentazione in capo agli aspiranti affilianti, statuendo che “… per la costituzione di una rete di affiliazione commerciale l’affiliante debba aver sperimentato sul mercato la propria formula commerciale”.

Si tratta di un vero e proprio test di mercato che serve a verificare la bontà della formula prima di concedere una licenza a terzi.

Lo scopo della norma è quello di evitare che vengano proposte ai potenziali affiliati attività in franchising la cui formula non è ancora stata sperimentata. In altre parole, la previsione di cui all’art. 3 vuole responsabilizzare l’affiliato evitando che questi faccia ricadere sugli affiliati i rischi ed i costi di formule non ancora testate. La sperimentazione dirà infatti se la formula “funziona” e se si può procedere all’avvio di una rete in franchising.

Della mancanza del know-how e della sperimentazione si è occupato il Tribunale di Bergamo

Quanto alla formula il Tribunale, dopo aver evidenziato – con un ragionamento non proprio lineare – che la formula commerciale sperimentata costituisce elemento essenziale e imprescindibile del contratto di franchising, ha accertato che nel caso sottoposto al suo esame non era stata inserita nel contratto alcuna precisazione circa la consistenza della formula commerciale costituente l’oggetto del contratto di affiliazione (in termini, ad esempio, di strategie per la gestione delle risorse umane e dei contatti o di norme comportamentali standardizzate, volte a fidelizzare l’utenza e ad agevolare il processo di avviamento e di mantenimento dell’attività). Non erano inoltre presenti rinvii al manuale operativo che l’affiliante sosteneva di avere consegnato al franchisee nella fase delle trattative né altri elementi da cui poter ricavare il contenuto della formula commerciale.

Sempre secondo il Tribunale mancava inoltre la prova della sperimentazione della formula commerciale, dal momento che era risultato che alla data di stipulazione del contratto in contestazione l’affiliante non aveva ancora concluso nessun contratto di franchising nè aveva esercitato in proprio l’attività oggetto del contratto di franchising.

Il Tribunale ha quindi dichiarato nullo il contratto di franchising in quanto mancante della descrizione della formula commerciale e della sua sperimentazione in epoca precedente la conclusione del contratto e, comunque, in mancanza di una esauriente descrizione del know-how.

Non è raro che gli affiliati sollevino il problema del know-how, lamentandone la mancata trasmissione: al riguardo è però opportuno distinguere l’ipotesi nella quale il know-how non è trasferito (ipotesi che condurrebbe alla risoluzione per inadempimento) da quella nella quale esso è inesistente (nel qual caso è corretto ipotizzare la nullità del contratto, per carenza di un elemento essenziale dello stesso, come avvenuto nel caso di specie).

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Normativa sul franchising, utile ma incompleta

Le informazioni precontrattuali sono al centro di dibattito di  numerose sentenze del Tribunale.

La Legge del 6 maggio 2004, la n.129 che regolamenta il franchising, è una legge dal testo scorrevole e semplice, ma presenta carenze molto importanti. Seppur ne consegua una facile applicazione ciò non sempre corrisponde alla realtà operativa, sempre più spesso sono i Tribunali a dover intervenire in contenziosi tra le due parti contrattuali.

di  Mirco Comparini – Commercialista e Revisore Legale

Nonostante le ormai ben note resistenze alla proposta di riforma della normativa giunta al settore alcuni anni fa, continuano ad arrivare sentenze di tribunali del tutto in linea con i contenuti di tale “bloccata” proposta di riforma. E’ il caso della Sentenza del 05.02.2018 del Tribunale di Trani che, oltre a replicare i contenuti delle importanti sentenze del Tribunale di Trento (n.1918/2010 e n.1919/2010), confermate dal Consiglio di Stato (già commentate dalle colonne di AZ Franchising), rafforza e fornisce ulteriori conferme delle lacune che la norma sta esprimendo da moltissimo tempo nel disinteresse sostanziale di chi dichiara di voler tutelare il settore.

Anche nel caso trattato dal Tribunale di Trani, il tema sono ancora le informazioni precontrattuali. Più volte abbiamo posto in evidenza come la Legge del 6 maggio 2004, la n.129 che regolamenta il franchising, sia una legge dal testo scorrevole e semplice, ma presenta carenze molto importanti. Seppur si possa ritenere che da questa struttura sintetica ne consegua una facile applicazione per la maggior parte del dettato normativo, ciò non sempre corrisponde alla realtà operativa e, come ormai sembra consolidarsi, così come i propositori della riforma hanno sempre cercato di porre in evidenza, sempre più spesso sono i Tribunali a dover intervenire in contenziosi tra le due parti contrattuali.

Infatti, pur essendo entrambe le parti (affiliante e aspirante affiliato) ad essere interessate da una serie di obblighi specifici, anche di carattere comportamentale, in tema di dati, notizie e informazioni, è ovvio che per l’affiliante sussistano obblighi aggiuntivi.

In particolare, il riferimento più corposo, oggetto di intervento del Tribunale di Trani, è l’articolo 4, comma 1, un vero e proprio elenco prescrittivo da concretizzarsi in allegati al contratto per la preventiva lettura. Si tratta di un elenco “minimo”, ma non quello “necessario” per una efficace valutazione e, soprattutto, si tratta di un elenco per la cui consegna la norma non indica alcuna forma o modalità. Come già accennato, il Tribunale di Trani conferma che, nella fase applicazione dell’articolo 4, l’affiliante:

–        deve consegnare materialmente al potenziale affiliato le informazioni previste;

–        deve dare prova della consegna;

–        non deve considerare sufficiente la presenza nel contratto di clausole precostituite e prestampate, seppur sottoscritte, aventi un contenuto “dichiarativo” di ricevuta consegna delle informazioni;

–        non deve considerarsi assolto il dovere di informazione precontrattuale con la consegna di materiale informativo generico tipicamente distribuito in modo indifferenziato ai richiedenti informazioni generiche.

In pratica, riprendendo le sentenze di Trento, l’adempimento di un obbligo informativo in un settore negoziale ad alto contenuto tecnico, come il contratto di franchising, “non può mai essere dimostrato mediante la sottoscrizione di dichiarazioni generiche, unilateralmente predeterminate e predisposte in via generale, essendo necessaria l’allegazione e la prova del contenuto e delle concrete modalità di messa a disposizione dell’affiliato della documentazione dettagliatamente elencata nel citato articolo 4, L.129/2004, in relazione alla quale vi è l’obbligo di preventiva consegna”. Pena la nullità del contratto.

Il Tribunale di Trani aggiunge ulteriori e importantissimi principi ai quali l’affiliante deve attenersi. Vediamo i punti:

  1. il primo punto di grandissima portata è dato dalla precisazione con la quale il Tribunale ha specificato che l’affiliante è non solo obbligato a consegnare al potenziale affiliato una copia completa del contratto, come riporta la norma, ma tale copia deve essere identica a quella che le parti andranno a sottoscrivere in caso di accordo e, pertanto, non può essere un fac-simile;
  2. a ciò occorre aggiungere che con il termine “completa” si debba considerare che la copia identica sia completata anche da tutti gli allegati che il contratto da sottoscrivere conterrà;
  3. eccezione al punto 2, nel pieno rispetto di quanto prevede la norma, è la concessione per l’affiliante di poter omettere la consegna dei soli allegati che, per motivi di riservatezza effettivamente meritevoli di tutela, consideri opportuno non divulgare nella fase precontrattuale, ferma restando la citazione nel contratto.

E’ sulla base dell’attuazione di queste modalità che l’affiliato potrà esaminare tutte quelle informazioni che gli consentano di avere una visione reale dell’affiliante oggetto di interesse valutandolo nella consistenza e nelle caratteristiche dell’attività oggetto del sistema di franchising.

In conclusione, l’omesso o l’incompleto adempimento degli obblighi di informativa precontrattuale è da considerare un’ipotesi di inadempimento contrattuale dell’affiliante generando una risoluzione del contratto con possibilità, da parte dell’affiliato, di chiedere il risarcimento del danno.

La portata di quest’ultima sentenza, che integra le precedenti citate e altre non citate, non è certamente da trascurare. La presenza di un obbligo normativo a carico del franchisor a fornire le informazioni precontrattuali in forma scritta, con idonea documentazione e idonea prova di consegna e ricezione, avrebbe certamente evitato il contenzioso in questione con notevoli risparmi per le aziende contendenti e risparmi per le casse dello Stato, avrebbe fornito certezza alle parti su ciò che costituiva dovere e diritto, avrebbe evitato la presenza di franchisor più “fumosi” ma rispettosi dell’attuale legge, ecc., ecc..

L’assenza di una tale disposizione lascia ampi spazi a disposizione di chi potrà farla franca per vari motivi.

Insomma, le sentenze mettono in clamorosa evidenza che la mancanza di una regolamentazione che dia certezza e sicurezza alle due parti contrattuali alza il rischio che siano proprio le prestazioni professionali di avvocati e i conseguenti giudizi dei Tribunali a dovere lentamente portare a far sapere non come debba essere attuata una normativa, quella sul franchising, utile ma incompleta, ma come non cadere proprio nelle “trappole” contenute dalla normativa con le sue carenze.

Non si tratta di giudizi e valutazioni soggettive, ma solo oggettive e l’oggettività giunge proprio da queste ed altre sentenze che non fanno altro che certificare l’infondatezza di chi sostiene che la normativa italiana sul franchising stia ben funzionando e non necessiti di un aggiornamento indirizzato a tutelare maggiormente franchisor e franchisee e, quindi, il settore, unici obiettivi degni di attenzione. Non solo, smentisce clamorosamente tutti coloro che continuano a sostenere che il contenzioso nel settore è diminuito, considerando, ad esempio, che il dato della mediazione-conciliazione non lo si saprà mai.

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Che cos’è la clausola d’esclusiva nel franchising

Avv. Paolo Fortina e dott.ssa Ilaria Secchiatti – Studio Legale NL

La clausola d’esclusiva impone ad una o ad entrambe le parti a non stipulare con terzi contratti all’interno di una determinata zona e per un preciso arco temporale.

Tale patto realizza lo scopo di garantire al franchisor e al franchisee una serie di vantaggi economici e di mercato.

Nel nostro ordinamento giuridico vige in ambito civile il principio dell’autonomia contrattuale che permette, ai sensi dell’articolo 1322 c.c. di conferire alle parti la possibilità di determinare liberamente il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge.

In quest’ottica l’affiliato e l’affiliante possono determinare il contenuto del contratto nel rispetto della Legge n. 129/2004 e, tenendo conto della propria volontà o della tipologia di attività commerciale, regolamentare determinate questioni piuttosto che altre.

Nel contratto di franchising un esempio frequente è la previsione di una clausola d’esclusiva.

La clausola di esclusiva impone generalmente ad una o ad entrambe le parti contraenti a non stipulare con terzi contratti aventi per oggetto specifiche prestazioni, come l’acquisto o la vendita di beni, all’interno di una determinata zona e per un preciso arco temporale.

Tale patto realizza lo scopo di garantire al franchisor e al franchisee una serie di vantaggi economici e di mercato; infatti, da un lato il franchisor si assicura la vendita dei propri prodotti, mentre dall’altro il franchisee ha la possibilità di disporre di un’area esclusiva di vendita, entro la quale non dover subire la concorrenza di altri distributori del medesimo prodotto.

Per tale ragione, è spesso consigliato prevedere una clausola d’esclusività nel contratto anche per assicurare un rapporto duraturo e trasparente tra l’affiliato e l’affiliante.

Negli ultimi anni si sono sviluppate nella prassi contrattuale varie tipologie di clausola d’esclusiva che si distinguono tra loro sulla base del numero di soggetti obbligati e dell’oggetto della clausola.

Per quanto riguarda i soggetti obbligati, la clausola d’esclusiva può essere bilaterale, in altre parole interessare entrambe le parti, oppure unilaterale, ossia riguardare solo una parte.

In materia di contratti di affiliazione commerciale, l’esclusiva è di regola bilaterale, poiché è in grado di disincentivare quei comportamenti opportunistici e disonesti del franchisee – che potrebbe adottare, trascurando l’attività di franchising per dedicarsi totalmente ad attività simili e concorrenziali – e del franchisor – che potrebbe distribuire il suo prodotto a più franchisee nella stessa area di competenza.

Per tali ragioni, spesso e volentieri, il contratto di franchising prevede tale clausola bilaterale al fine di obbligare da un lato il franchisee ad astenersi dal vendere, produrre beni o servizi concorrenti o diversi da quelli forniti dall’affiliante, dall’altro il franchisor ad astenersi dal nominare nello stesso territorio altri franchisee per la distribuzione degli stessi beni.

Per quanto riguarda l’oggetto, l’esclusiva può essere:

1) di territorio, in quest’ipotesi il franchisor si obbliga a non designare altri rivenditori del suo prodotto in una determinata zona, oppure il franchisee di obbliga a non vendere al di fuori di tale ambito; inoltre l’esclusiva di territorio può essere riferita ad un insieme di clienti, determinato o determinabile, piuttosto che ad un area geografica;

2) di prodotto, in tal caso il franchisee si obbliga ad acquistare determinati beni esclusivamente presso il franchisor e di conseguenza a non distribuire prodotti diversi da quelli pattuiti, o il franchisor si obbliga a non distribuire i propri prodotti a soggetti diversi dal franchisee in quell’area;

3) di acquisto, ossia l’obbligo da parte del franchisee di acquistare determinati beni solo da uno specifico franchisor.

Quest’ultima tipologia di clausola è anche quella più frequente nell’affiliazione commerciale, poiché da un punto di vista economico, realizza un risultato analogo all’obbligo di non concorrenza, così in linea di massima il divieto in capo al franchisee sarebbe circoscritto al solo acquisto dei prodotti da terzi, lasciando ampia autonomia su tutto il resto.

Ma cosa accade nel caso in cui una delle parti obbligate ponga in essere un comportamento idoneo a violare la clausola d’esclusiva?

Secondo la più recente giurisprudenza la violazione della clausola può dar luogo ad un’ipotesi di inadempimento contrattuale idonea a determinare la risoluzione del contratto in applicazione della norma generale dell’art. 1453 c.c. ed eventualmente al risarcimento del danno.

Infatti il patto di esclusiva svolge una funzione di grande rilevanza nel regolamento negoziale cui afferisce la tipologia dell’affiliazione commerciale, poiché ha forte peso specifico nell’equilibrio sinallagmatico: essa costituisce una garanzia di maggior guadagno per il franchisee e per il franchisor. L’inadempimento di un simile patto appare alla giurisprudenza serio ed idoneo a titolare la risoluzione del contratto (Tribunale Milano sez. V, 17/01/2019, n.425).

É comunque preferibile collegare la clausola d’esclusiva con una clausola risolutiva espressa, in questo modo si avrà la risoluzione del contratto in ipso iure, oppure con una clausola penale che quantifichi a priori il risarcimento del danno dovuto nel caso di violazione del patto d’esclusiva.

Tali aggiunte al regolamento contrattuale potranno solamente svolgere una funzione di dissuasione dal compimento di atti contrari al rapporto contrattuale, garantendo una maggior stabilità allo stesso.

Come in ogni contratto, detta clausola ha effetti vincolanti unicamente tra le parti e solo questi ultimi possono farla valere e rispondere di inadempimento contrattuale, poiché i terzi, anche se coinvolti, restano estranei agli obblighi assunti dal franchisor e dal franchisee con la stipula del contratto e quindi non possono essere contrattualmente responsabili.

Tuttavia è possibile far si che i terzi siano responsabili a titolo di concorrenza sleale, ai sensi dell’art. 2598 c.c., qualora questi fossero a conoscenza della sussistenza della clausola ed in ogni caso abbiano proseguito con una condotta non conforme alla concorrenza professionale.

In conclusione, la clausola d’esclusiva non costituisce un elemento naturale del contratto di franchising, ma un elemento dal contenuto e dagli effetti molto ampi e vari che, solo se previsto espressamente per iscritto dal franchisor e dal franchisee, può entrare a far parte del regolamento contrattuale e senza il quale le parti non possono invocare alcuna tutela paragonabile per i propri interessi economici e commerciali.

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Perché alcune imprese scelgono il franchising?

Chi intende considerare di mettersi in proprio con la formula del franchising ha necessità di sapere esattamente cosa sia e in che modo differisce dalle altre modalità di esercizio di impresa.

di Mirco Comparini – Commercialista e Revisore Legale 

Molti sostengono che un “business in franchising” sia un’operazione di nicchia, inteso nel senso che si tratta di formule commerciali progettate, predisposte, create e sviluppate da un numero ridotto di imprenditori: la replica di una formula di successo (in teoria).

La creazione di un sistema di franchising è un processo aziendale molto lungo e complesso e lo si ottiene con il supporto di consulenti in franchising specializzati nella progettazione e non, come molti credono, con quelli specializzati in sviluppo. Possiamo sintetizzare in quanto segue gli elementi essenziali, con invito a considerare tale elenco non esaustivo:

Sperimentazione – la fase di sperimentazione è l’essenza e la fase più importante della progettazione necessaria, sia in termini legali, sia in termini aziendali. Solo da tale fase è possibile comprendere l’effettiva possibilità di replicabilità e, non di meno, di potenziale successo.

Modulistica e specifica documentazione dell’attività in franchising – per la replicabilità ed il trasferimento a terzi delle conoscenze e del know how presenti nel sistema di franchising è necessaria moltissima documentazione al fine di standardizzare tutti i processi gestionali e operativi, ma anche di carattere legale e giuridico (contratti, manuali operativi, manuali di formazione, ecc.).

Formazione – un dettagliato e ben strutturato piano di formazione e aggiornamento, sia iniziale, che continuativa, costituisce un aspetto di estrema importanza per coloro che intendono investire nel sistema di franchising (franchisee), ma anche per le risorse umane che gli stessi franchisee hanno la necessità di impiegare.

Supporto e assistenza – sin dalla progettazione si rende necessario impostare forme di assistenza e supporto alle imprese che faranno parte della rete di franchising, una attività estremamente importante anche per il controllo della rete, quindi, una duplice utilità, sia per l’affiliante, sia per l’affiliato.

Perché alcune imprese scelgono di svilupparsi in franchising?

Ecco alcuni dei motivi principali.

Partner e non dipendenti – la crescita con il franchising è attuata reclutando imprenditori indipendenti e non risorse umane alle proprie dipendenze da inserire in una filiale o succursale. Ciò, oltre a ridurre i costi generali di ogni struttura, è caratterizzato anche dal fatto che il ruolo di investitore è assunto dallo stesso affiliato determinando così una partnership con l’affiliante per la gestire con profitto il business.

Opportunità di crescita rapida – il franchising offre possibilità di crescita e sviluppo alquanto rapide, ma ciò dipende dalle capacità del franchisor (per molti aspetti). Ovviamente sono molti i fattori variabili da questo punto di vista, ma nella sostanza tale affermazione ha fondate basi.

Raccolta di capitali – come noto, il franchising genera flussi di denaro a seguito dell’investimento (una parte) effettuato dall’affiliato al momento in cui aderisce alla rete. Ma l’aspetto da non trascurare è che al momento in cui la rete è in grado di dimostrare l’alta redditività degli aderenti e una efficace gestione manageriale, la stessa rete può presentarsi agli operatori finanziari con una maggiore affidabilità in modo da poter attingere a ulteriori risorse da parte di tutti gli aderenti consentendo loro ulteriori crescite e forme espansive.

Dai tratti essenziali sopra descritti, è facilmente comprensibile che chi aderisce ad una rete di franchising ha la necessità di riconoscere e valutare l’impostazione che il franchisor ha predisposto per il sistema di franchising oggetto di interesse.

Una attività non facile se non si è assistiti da professionisti specializzati e, soprattutto, se non si è opportunamente formati circa la conoscenza dello stesso franchising, delle sue caratteristiche, dinamiche, rischi, ma anche opportunità e prospettive.

Le aziende in franchising hanno generalmente un tasso di successo molto più alto rispetto ad altre start-up aziendali o “non franchising”, ma occorre anche considerare che il numero degli operatori economici di tale settore è molto ridotto rispetto all’intero panorama.

Investire in un sistema franchising (acquistare un sistema di franchising) significa accettare di seguire tutte le impostazioni di tale sistema attuando quanto predisposto nella documentazione con la quale il franchisor ha codificato l’intera gestione dell’attività.

Ovviamente si tratta di un processo di due diligence specifico che parte anche da aspetti attitudinali e personali del soggetto che intende aderire ad una rete di franchising.

Tutto questo determina una complessità generale che fa del franchising un ottimo strumento di crescita e sviluppo aziendale da approcciare con la massima accortezza.

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Franchisee inadempiente? Ecco cosa fare…

Cosa fare quando il franchisee è inadempiente?

Risolvere il contratto potrebbe non essere la soluzione più vantaggiosa da un punto di vista sia commerciale che economico. Ecco come comportarsi…

di Alessandra Sonnati – Avvocato – Frignani e Associati Studio Legale

In via generale è il contratto che regola cosa succede in caso di inadempimento del franchisee.

Nella pratica è infatti assai diffusa l’inserzione, nel testo contrattuale, di clausole c.d. risolutive espresse, vale a dire di clausole che prevedono espressamente che il contratto dovrà considerarsi risolto quando una determinata obbligazione non venga adempiuta o venga adempiuta con modalità difformi da quelle pattuite.

A tale riguardo è bene ricordare che l’art. 3, comma 4, lett. g) della legge 129/2004 dispone che il contratto di franchising debba specificare “le condizioni di risoluzione del contratto stesso”. Ciò significa che eventuali clausole risolutive espresse dovranno essere convenute per iscritto.

In difetto di esplicita indicazione troveranno invece applicazione le disposizioni generali in tema di inadempimento ed in particolare l’art. 1453 c.c., il quale dispone che “…quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno”.

Quanto precede lascia però aperto il problema di valutare se la risoluzione del contratto per inadempimento sia la via più opportuna da seguire, soprattutto in caso di inadempimento occasionale da parte del franchisee.

Risolvere il contratto potrebbe infatti non essere la soluzione più vantaggiosa da un punto di vista sia commerciale che economico.

Si pensi al danno all’immagine conseguente alla chiusura di un punto vendita ed alla perdita derivante dal non poter più disporre dell’accesso al mercato nel territorio in cui operava il franchisee il cui contratto è stato risolto.

Pertanto, a meno che non si tratti di inadempienti di gravità tale da impedire, anche provvisoriamente, la prosecuzione del contratto (come nel caso di comportamenti da parte del franchisee che riflettono negativamente sull’immagine del franchisor o delle rete), è sempre bene esplorare soluzioni alternative alla risoluzione.

Così ad esempio nel caso in cui il franchisee sia inadempiente all’obbligo di pagamento delle royalties e degli altri corrispettivi dovuti sarà senz’altro più conveniente per il franchisor mantenere in piedi il contratto, magari facendosi risarcire, in tutto o in parte, il danno patito, anziché risolverlo.

In altre ipotesi si potrebbero invece prevedere delle sanzioni che potrebbero consistere nella revoca dell’esclusiva o nella restrizione del territorio concesso in esclusiva.

Anche la previsione di penali può costituire una valida ed efficace alternativa alla risoluzione, oltre che fungere da deterrente.

Come si può vedere, una corretta redazione delle clausole del contratto può assolvere la funzione di efficacemente tutelare la posizione del franchisor senza necessariamente ricorrere alla risoluzione del contratto.

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Origini ed evoluzione del contratto franchising

di Paolo Fortina e Cristina Corsano –  avvocato, NL Studio Legale

Dalle tradizionali figure di intermediazione commerciale la prassi è andata evolvendosi verso forme di integrazione molto più complesse tra produttore e distributore.

Lo sviluppo del franchising (o affiliazione commerciale) è iniziato nel nostro paese in maniera massiccia ad opera della grande distribuzione nel corso degli anni Settanta. 

Dal punto di vista della disciplina normativa, in Italia, dopo un lungo periodo di affermazione del fenomeno solo sul piano pratico, senza che fosse individuata alcuna espressa regolamentazione, si è avvertita l’esigenza di introdurre una disciplina specifica.

Ciò che emerge, almeno nella pratica dei rapporti commerciali prima del 2004 in riferimento al franchising, è un quadro ben definito: la causa di tale contratto atipico veniva individuata nella trasmissione da parte del franchisor, o affiliante, di un fascio di proprie situazione attive (marchi, segni distintivi, know-how, metodi e scelte commerciali, ecc …) a fronte del pagamento del franchisee, o affiliato, di un corrispettivo in denaro, di solito in termini di canone di affiliazione o royalties.

Il punto di svolta si è avuto con l’emanazione della Legge n. 129/2004.

Intervento legislativo necessario poiché prima della suddetta legge si erano riscontrate profonde incertezze circa l’utilizzo di una definizione unitaria di tale contratto; tra le varie proposte in dottrina la più completa era quella proposta da Frignani, il quale considerava il franchising come “un sistema di collaborazione tra un produttore (o rivenditore) di beni od offerente di servizi (franchisor) ed un distributore (franchisee) giuridicamente ed economicamente indipendenti l’uno dall’altro, ma vincolati da un contratto in virtù del quale il primo concede al secondo la facoltà di entrare a far parte della propria catena di distribuzione, con il diritto di sfruttare, a determinate condizioni e dietro il pagamento di una somma di denaro, brevetti, marchi, nome, insegna o addirittura anche una semplice formula o segreto commerciale a lui appartenente; inoltre il primo si obbliga a certi rifornimenti di beni o servizi, mentre il secondo si obbliga a conformarsi ad una serie di comportamenti prefissati dal primo”.

In seguito alla Legge n. 129/04 arriva la definizione di contratto di franchising.

L’art. 1 si esprime: “L’affiliazione commerciale (franchising) è il contratto, comunque denominato, fra due soggetti giuridici, economicamente e giuridicamente indipendenti, in base al quale una parte concede la disponibilità all’altra, verso corrispettivo, di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti di autore, know-how, brevetti, assistenza o consulenza tecnica e commerciale, inserendo l’affiliato in un sistema costituito da una pluralità di affiliati distribuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare determinati beni o servizi. che chiarisce altresì il significato da attribuirsi a nozioni essenziali quali know-how, diritto di ingresso (entrance fee), royalties e beni dell’affiliante”.

Tale articolo chiarisce altresì il significato da attribuirsi a nozioni essenziali quali know-how, diritto di ingresso (entrance fee), royalties e beni dell’affiliante.

In definitiva il contratto di franchising è una forma di collaborazione tra imprese, in cui taluni soggetti, i franchisees, commerciano prodotti del franchisor, utilizzandone il marchio e il know-how, ma mediante una distinta organizzazione, rimanendo soggetti economicamente e giuridicamente del tutto distinti dal franchisor.

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