Il contratto di franchising negli Stati Uniti

 

Negli Stati Uniti si fa spesso ricorso al contratto di franchising per diffondere e consolidare il proprio marchio.

Teniamo anche presente che questa esigenza è sicuramente molto legata all’ampiezza del territorio con conseguente difficoltà di presenza capillare con punti vendita o realtà proprie. Prima del Covid-19 negli Stati Uniti vi erano circa 2.500 sistemi di franchising che gestivano circa 800.000 realtà in franchising in 300 diversi settori. Queste attività in franchising hanno generato oltre 7 milioni 600.000 posti di lavoro, circa 674 miliardi USD in termini di valore della produzione e il 2,5% del prodotto interno lordo.

Purtroppo, a causa del Covid, nell’agosto 2020, circa 32.700 attività in franchising hanno chiuso e, di queste, 10.875 in maniera definitiva. Il mercato del franchising ha registrato una perdita di 1 milione 400.000 posti di lavoro a causa della pandemia, il 40% dei quali, in maniera definitiva.

LA RIPRESA DOPO LA PANDEMIA

 Il sistema franchising è noto per la sua resilienza e innovazione, ma bisogna capire quanto rapidamente potrà riprendersi al termine della pandemia.

Le dieci più importanti catene di franchising a livello mondiale di trovano negli Stati Uniti (McDonalds, Pizza Hut, KFC, Burger King, …): esse rappresentavano oltre 300 miliardi USD di vendite annuali, con una continua crescita.

Gli interessi dei marchi in franchising negli Stati Uniti sono rappresentati dalla International Franchise Association, con sede a Washington, che è la più grande e più antica organizzazione al mondo nell’ambito del franchising.

PECULRIATIA’ E DIFFERENZE NEL CONTRATTO DI FRANCHISING

Occorre premettere che, sia pure con le caratteristiche comuni, presenti ovunque, il contratto di franchising negli Stati Uniti a volte presenta peculiarità e differenze tra uno Stato e l’altro e che quindi è buona raccomandazione quella di fare una specifica e preventiva verifica delle norme vigenti nel territorio nel quale si intende operare.

Abbiamo detto che la disciplina del contratto di franchising non è uniforme e si differenzia da Stato a Stato e che a volte è assente.

A livello federale l’ente che si occupa di franchising è la Federal Trade Commission e la legge di riferimento è  la FTC Franchise Rule del 2007, denominata “Disclosure Requirements and Prohibition Concerning Franchising”. In generale si tratta di norme a tutela del franchisee.

APRIRE UNA RETE IN FRANCHISING IN USA

La scelta di aprire una rete di franchising, specie in USA, deve essere necessariamente preceduta da un accurato studio di fattibilità, che tenga conto, tra gli altri aspetti, delle caratteristiche del mercato, non certo uniformi, delle abitudini dei potenziali acquirenti dei beni o servizi, delle normative sul lavoro e degli aspetti fiscali, dell’entità dell’investimento necessario, che non è certo di lieve entità.

Per prima cosa è indispensabile che il marchio del franchisor sia registrato e valido negli Stati Uniti.

La FTC richiede che le venga inviata preventivamente l’informativa precontrattuale (Franchise Disclosure Document  – FDD) che soddisfi i requisiti richiesti dalle norme vigenti e dalla FTC Franchise Rule.

15 Stati inoltre richiedono che il franchisor registri il FDD ed altri 7, che si compili un modulo prima di offrire o vendere in franchising in tali Stati.

Gli obblighi di informativa e di registrazione hanno lo scopo di tutelare i franchisee ed i potenziali franchisee.

Il franchisor deve inoltre essere in grado di soddisfare i requisiti della supply chain, intendendo per tale la possibilità di garantire tutti i passaggi relativi agli articoli offerti, dalla produzione alla importazione negli Stati Uniti, nel rispetto delle norme relative ai singoli prodotti ed alle regole di importazione, compresi i costi doganali e di logistica.

Gli elementi che caratterizzano questo tipo di contratto, come sempre, sono:

  • la concessione del marchio da parte del Franchisor a favore del Franchisee per la vendita di beni o servizi;
  • il pagamento di una entry fee a favore del Franchisor;
  • il controllo dell’attività del Franchisee da parte del Franchisor per il raggiungimento di un interesse comune.

È consigliabile, nel caso in cui il titolare del marchio sia un soggetto straniero, che costituisca una società o incarichi un soggetto giuridico nel territorio, con il compito di agire in qualità di master franchising.

In tal caso il master franchisor ha l’incarico di stipulare contratti di sub-franchising con sub-franchisee a livello locale.

In questo caso il primo contratto, tra soggetti appartenenti a Paesi diversi, sarà disciplinato in base alle norme di diritto internazionale privato, mentre il secondo, dalle norme locali.

Qualora il franchisor italiano intenda agire direttamente, potrà farlo, magari avvalendosi di un area representative locale, per lo svolgimento di alcuni compiti specifici, come l’assistenza all’aperura del punto vendita, e nelle fasi di avviamento. 

A volte si fa invece ricorso alla figura dell’area developper franchisee cui viene data l’esclusiva territoriale per l’apertura di punti vendita per beni o servizi.

È utile ricordare che la precisione nella stesura delle clausole contrattuali è sempre importantissima sia per l’esatta qualificazione del contratto, sia per individuare gli oneri a carico delle parti evitando così il più possibile l’insorgere di controversie a livello interpretativo.

Simone Roati è il nuovo CFO di Svicom

Simone Roati entra in Svicom con l’incarico di Chief Financial Officer, andando a rafforzare l’organizzazione aziendale in una delle aree più strategiche.

Roati ha consolidato la sua carriera professionale in prestigiose società di consu- lenza quali EY S.p.A., maturando esperienze nel ruolo di Financial Services Manager in primarie società operanti nel settore finanzia- rio. Ha proseguito poi il suo percorso nelle SGR immobiliari divenendo CFO della società Blue SGR S.p.A.

“Con grande entusiasmo, ho deciso di mettere al servizio di Svicom la mia esperienza ed il mio know how. – spiega Simone Roati – In questi primi giorni ho già avuto conferma del dinamismo e dell’elevata professionalità che caratterizzano tutto il team e che, a mio avviso, sono fra i fattori chiave del successo della società nel Retail Real Estate italiano.”

Simone Roati, Chief Financial Officer di Svicom.

A fare gli onori di casa, Letizia Cantini, General Manager di Svicom: “L’arrivo di Simone Roati rappresenta un tassello fondamentale per la crescita dell’azienda in funzione dei nostri piani strategici di sviluppo. La sua esperienza determina un rafforzamento del nostro team in ambito finance, con l’obiettivo di offrire ai nostri Clienti un servizio di consulenza sempre di alto profilo.”

Informazioni su Svicom

Da 25 anni Svicom offre un servizio di consulenza completo e integrato nell’ambito della valorizzazione di immobili commerciali, affermandosi come una delle aziende leader nel Retail Real Estate italiano. La società vanta un portfolio di 100 asset – per una Gla superiore a 1.3 milioni di mq – che include centri e parchi commerciali, stand alone e high street, food hall, immobili logistici e direzionali.

 

Alle attività di Property, Centre Management e Leasing, si affiancano servizi di:  Technical Services, Advisory, Legal Services e Digital Strategies. Svicom è un’azienda in continua evoluzione, in cui passione e pragmatismo sono gli elementi chiave che ne definiscono l’impronta distintiva.

Contatti per la stampa

Gerardo Monferrato
Email: comunicazione@svicom.com Tel. 02 9999 2000

Giovani e franchising: l’occasione di una vita

Il lavoro cambia rapidamente in funzione del progresso tecnologico e scientifico. Molte attività nei prossimi anni spariranno, altre prenderanno il loro posto, proprio grazie alle tecnologie.

Per fortuna, la mentalità dei giovani, anche per merito dei cosiddetti nativi digitali, sta cambiando. Da questi ultimi, soprattutto, arrivano idee nuove, maggiore spirito d’iniziativa, creatività, curiosità e ambizione. Questo atteggiamento li porta a scelte drastiche, come andarsene all’estero.

Molti di loro si orientano sempre di più verso attività autonome, in cui possano essere finalmente padroni della propria vita.

In Italia è carente una cultura d’impresa

In Italia non c’è mai stata una seria cultura d’impresa. Creare un’impresa è possibile per chiunque abbia un’idea valida, un certo spirito innovativo e la necessaria determinazione. 

La mentalità imprenditoriale è un atteggiamento, un approccio al pensiero finalizzato all’innovazione, che sa porsi domande critiche, che persegue un miglioramento continuo, che sa operare con agilità, senza autocompiacimento ma con orgoglio e senso di responsabilità, e che è in grado di affrontare i rischi e anche eventuali fallimenti.

Il fenomeno delle start up

Lo spirito imprenditoriale, che poi si traduce nel desiderio di mettersi in proprio, trova il modo di svilupparsi nonostante le prime difficoltà organizzative. Ne è una evidente testimonianza l’aumento delle start up. Ma anche in questo ambito non sono tutte rose e fiori. Queste imprese, infatti – al di fuori del contingente problema della pandemia – registrano un elevatissimo tasso di mortalità (su 100 solo 8 sopravvivono al fallimento).

Molto meglio funzionano le start up innovative, ma si tratta di un settore di nicchia con imprese ad alto contenuto tecnologico, quindi riservate a specifici ambiti e professionalità. 

Qui, il tasso di mortalità è molto inferiore, ma occorre tenere conto che sono favorite da particolari aiuti economici previsti dallo Stato (finanziamenti agevolati) e supportate da numerose iniziative.

Gli aiuti dall’Europa

Next Generation EU, che viene semplificato con il termine Recovery Plan, è un fondo per il sostegno finanziario degli stati membri dell’Unione Europea colpiti dalla pandemia ma nel suo titolo porta chiaramente l’indicazione che le politiche da adottare dovrebbero rivolgersi soprattutto  alle prossime generazioni.

Pochi Paesi hanno bisogno quanto l’Italia di nuove opportunità di occupazione, crescita, e innovazione del sistema. Tutti elementi fortemente legati alla nascita di nuove imprese. Ma fino a quando gli incentivi impliciti nel sistema favoriranno le rendite di posizione e certi privilegi accumulati in passato, sarà difficile riuscirci.

Franchising: una soluzione win/win

Secondo gli esperti, il franchising è destinato ad essere uno dei motori propulsivi più importanti per superare la crisi post pandemia. E questa considerazione vale indistintamente per i franchisor e per i franchisee.

Il rapporto di partnership tra le due parti in gioco è un modello vincente perché consente di far convivere l’organizzazione aziendale delle grandi imprese, che possono sviluppare e tutelare il proprio brand, la propria cultura d’impresa, la propria etica, avvalendosi della flessibilità e delle capillarità delle microimprese franchisee.

Quindi, gli imprenditori che sono pronti per la ripresa, hanno la possibilità di sviluppare la propria attività attraverso la carta vincente del franchising, condividendo la propria esperienza e il proprio modello di business con chiunque desideri aprire un punto vendita affiliato, creando indirettamente nuovi posti di lavoro.

Un modello di business collaudato

La proposta di affiliazione, oltre ad assicurare un modello di business collaudato, permette ai franchisee di iniziare una attività imprenditoriale richiedendo un investimento modesto, a fronte di un livello di rischio molto contenuto, avendo alle spalle un franchisor che ha già sperimentato con successo il proprio business concept nel mercato. 

Il franchisee, anche quello meno esperto, potrà quindi acquisire un know-how importante, sfruttare i benefici derivanti dalle economie di scala, usufruire di promozioni e pubblicità da parte della casa madre e una assistenza manageriale e amministrativa, che si articola nel tempo anche attraverso corsi di aggiornamento e formazione.   

L’irresistibile ascesa del franchising tra i giovani

Il franchising è un settore in netta crescita perché, come abbiamo detto, utilizza un sistema vincente. Questo vale anche per le imprese che già operano sul mercato con un marchio conosciuto.

In questo modo, infatti, è data loro la possibilità di sviluppare la propria attività, sfruttando il trend di ripresa che già si intravede, espandendosi sul mercato con sicurezza, creando propri format di franchising, rapidamente e a costi molto più ridotti che se decidessero di aprire proprie filiali. 

Questo modello di business win/win aiuta quindi l’occupazione e l’imprenditoria, e si rivolge a tutti, ma in particolare ai giovani, delusi di non riuscire a trovare un’occupazione adeguata e intenzionati a mettersi alla prova come imprenditori. 

Un dato, per finire, a conferma di questa tendenza. Secondo un recente rapporto di Assofranchising, quasi il 90% dei franchisee ha un’età compresa tra i 25 e i 45 anni ed uno su quattro ha un’età compresa tra i 25 e i 35 anni. Allora, cosa aspettano i giovani?

Come difendere la brand identity

di Ugo Perugini – Giornalista – blogger

Il brand non è un fenomeno nuovo, nato con la società dei consumi. Ha radici lontane. Qualche esempio lo troviamo addirittura a partire dall’impero romano: ceramiche, vetri, botti, anfore, ecc. venivano distinti gli uni dagli altri attraverso firme (signa), bolli, timbri, applicati da commercianti e artigiani che li lavoravano. Non erano solo marchi di fabbrica ma veri e propri segni distintivi di provenienza e di qualità.

La definizione di “brand”, adottata dall’AMA (American Marketing Association), si adatta anche agli antichi reperti romani: “un nome, un segno, un termine, un simbolo o la combinazione di questi elementi con lo scopo di indentificare i beni e i servizi offerti per differenziarli da quelli dei concorrenti”. Ma oggi il “brand” è molto di più. 

Marty Neumeier, grande esperto del settore, l’aveva definito come “la sensazione che una persona ha di un certo prodotto, servizio, organizzazione”. Così facendo, l’attenzione si sposta dal prodotto in sé al valore aggiunto che chi lo ha realizzato è in grado di garantirgli. E’ ciò che David Aaker chiama brand equity (valore della marca), che per il cliente significa non solo riconoscere il prodotto (brand awareness), ma riconoscersi in esso, e restarne fedele (brand loyalty).

Il brand nel franchising e il ruolo del franchisee

Il franchising è un sistema che ha sue regole e chi vi aderisce deve conoscerne i meccanismi e gli elementi strutturali, a partire proprio dal brand. Uno dei compiti più delicati del franchisee è proprio quello di mantenere nel rapporto con i propri clienti la coerenza del brand in tutte le sue forme.

Ciò perché il brand è, come abbiamo visto, un moltiplicatore di valore e, proprio per questo motivo, non può essere gestito in modo autonomo dal franchisee perché il suo sviluppo è intimamente collegato allo sviluppo della proprietà intellettuale dei prodotti che in esso si identificano.

Non vogliamo qui tanto soffermarci sulla necessità, che diamo per scontata, di mantenere un controllo sui materiali promozionali, sul logo, sulle immagini, che provengono dal franchisor e che vanno costantemente tenute aggiornate, secondo le indicazioni previste.

Interessa soprattutto sottolineare la possibilità che il franchisee sappia veicolare con intelligenza e coerenza un messaggio di marketing uniforme a quello imprenditoriale, in modo che i clienti ne possano apprezzare la continuità. E che si traduce in un linguaggio coerente, sia nella presentazione dei prodotti ma anche nel brand storytelling che deve poter trasmettere in modo emozionale i valori incarnati dalla scelta originaria.

Occorre che il franchisee entri a fondo nella filosofia dell’impresa per conoscere il brand e il suo utilizzo, il messaggio che sottende e i valori che veicola. Solo così è possibile gestire una attività, certi di avere un vantaggio competitivo importante nei confronti della concorrenza.

L’importanza della formazione

Per arrivare a questo, però, occorre una seria attività di formazione che vada oltre la semplice conoscenza procedurale del manuale operativo e che non si limiti a un temporaneo affiancamento iniziale. Oggi, ci troviamo ad operare in un mondo imprenditoriale difficile, volatile, incerto, complesso, ambiguo, aggravato dal problema della pandemia. Rimanere aggiornati è ineludibile, e occorre farlo attraverso incontri periodici o, eventualmente, ricorrendo a sistemi di l’e-learnig, cioè corsi on line che il franchisor dovrebbe prevedere.

Pensiamo soltanto al tema della sostenibilità e delle nuove pratiche o iniziative messe in atto dal franchisor, atte a coniugare crescita, performance economica e sostenibilità ambientale e sociale. I clienti sono sempre più sensibili a questi aspetti e informarli può rappresentare un plus decisamente importante per la vendita.

Il franchisee e la sua autonomia

Il franchisee deve avere nel suo lavoro la necessaria indipendenza. Il collegamento con il franchisor non si deve però limitare ai previsti report periodici, occorre che il canale di comunicazione sia più aperto possibile per favorire lo scambio di contenuti, informazioni, conoscenze, esperienze o idee e proposte particolari.

Anzi, la collaborazione di chi è sul fronte operativo e può sentire meglio il polso della clientela della sua zona è auspicabile e particolarmente utile. E’ importante infatti comprendere le esigenze specifiche del pubblico locale e regolare i messaggi del brand secondo tali indicazioni, utilizzando tutti gli strumenti di comunicazione interna disponibili e ricorrendo a frequenti feed-back.

Un’altra forma di collaborazione particolarmente importante tra franchisor e franchisee consiste, ad esempio, nel favorire il coinvolgimento di questi ultimi nelle prime fasi di nuove campagne pubblicitarie. E’ una prassi messa in cantiere da molte aziende e piuttosto apprezzata. Si tratta, in sostanza, di un buy-in anticipato che può aiutare molto a comprendere l’efficacia dell’iniziativa messa in atto.

Conclusioni

Si parla spesso di immagine coordinata, di brand design, indispensabili per creare una corretta corporate identity, cioè per fornire al pubblico la percezione complessiva dell’impresa, attraverso quegli elementi visibili e invisibili che concorrono a definirne l’immagine e i valori distintivi. In realtà, però, ciò non sempre si verifica.

Chi opera in franchising ha l’obbligo di rispettare questi principi in ogni momento della sua attività, quando presenta l’azienda, quando mostra e vende i suoi prodotti o servizi, quando comunica online e offline. E lo deve fare con coerenza, con attenzione ai dettagli, perché soltanto così i clienti potranno facilmente riconoscersi nella filosofia dell’azienda che egli rappresenta e i risultati, anche in termini di performance, non potranno mancare.

ARTICOLO COMPLETO NELL’ULTIMO NUMERO DI AZ FRANCHISING MAGAZINE-APRILE 2021

Diventare franchisor: AZ risponde

Cosa significa diventare Franchisor?

Diventare franchisor significa scegliere di sviluppare e diffondere, con la collaborazione di altri imprenditori, la propria intuizione di business.Vuol dire quindi coinvolgere persone spesso senza esperienza, motivate dal desiderio di cambiare vita lavorativa, spinte dalle forti aspettative che un lavoro in proprio può generare, visti anche gli in-
vestimenti economici che richiede, rispetto a un lavoro dipendente. Il franchisor, insomma, si assume una buona dose di responsabilità nei confronti dei propri franchisee, che restano comunque imprenditori e dunque sono esposti al rischio di impresa, ma che spesso si affidano a lui per condividere un progetto che non è solo di business, ma anche di vita.

Che cos’è il Manuale Operativo?

Il Manuale Operativo è la sintesi del know-how. Il vantaggio competitivo della franchise è sintetizzato in questo volume, che può cambiare nel corso della vita dell’insegna. Gli affiliati stessi, infatti, possono essere portatori di valore aggiunto. Il Manuale Operativo, dunque, si rivela un utile strumento non solo per il neo franchisee, che entra in un sistema di cui deve imparare alla perfezione il funzionamento ma anche per il franchisor, per il quale rappresenta lo strumento da utilizzare per il passaggio del know-how agli affiliati.

Quale legge regola il contratto di franchising?

Legge 6 maggio 2004, n. 129 Norme per la disciplina dell’affiliazione commercialepubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 120 del 24 maggio 2004

La legge n. 129 non impone obblighi sul contenuto del contratto, ma fornisce delle indicazioni sugli aspetti che esso deve contenere, a pena di nullità del contratto stesso. Oltre alla forma scritta, la normativa italiana in materia richiede che nel testo del contratto sia innanzitutto indicato l’ammontare dell’investimento iniziale che l’affiliato dovrebbe sostenere per l’avvio dell’attività. Oltre a questo aspetto, nel contratto si deve specificare l’esistenza di eventuali royalties, le specifiche del know-how fornito dall’affiliante, i servizi da esso resi in termini di assistenza tecnica e commerciale.

Come seleziono i franchisee?

Il momento del recruiting deve essere pianificato e condotto con pazienza e metodo. Alla base di una rete di successo, c’è l’incontro riuscito tra franchisor e franchisee “ideali” (l’uno per l’altro). Il franchisor dovrà procedere a una scrematura secondo la definizione dei requisiti minimi del candidato, che dovranno essere prima definiti correttamente – no alla generica “capacità commerciale” – e poi applicati in modo oggettivo. Per esempio: un livello di investimento molto alto per affiliarsi consentirà di “scartare” l’affiliando che non dispone di tale capacità economica. Per far ciò è necessario essere condotti nella ricerca da un principio di trasparenza.

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Diventare franchisee: rispondiamo ad alcuni quesiti

Posso aprire un’attività qualsiasi?

Il franchising è una formula commerciale che si adatta a qualsiasi settore. Ci sono reti in franchising di abbigliamento, catene di centri estetici, network di agenzie di viaggio. Con questa formula, si possono aprire asili nido, palestre e persino industrie. Quindi, la FRANCHISE DI DISTRIBUZIONE riguarda la vendita di prodotti:
negozi di scarpe, abbigliamento, supermercati, etc. La FRANCHISE DI SERVIZI concerne l’erogazione di servizi, appunto: parrucchieri, agenzie di viaggio, agenzie immobiliari, etc. Si parla di FRANCHISE INDUSTRIALE quando l’oggetto dell’accordo riguarda la fabbricazione di beni e poi, generalmente, la loro commercializzazione (in tal caso, si parla di franchise mista industriale/commerciale). Sapevate, per esempio, che Coca Cola ha accordi di franchising con gli “imbottigliatori”, ovvero con i partner che forniscono supporto per imbottigliare e distribuire la bevanda nel mondo?

PER LEGGE: “L’affiliazione commerciale (franchising) è il contratto, comunque denominato, fra due soggetti giuridici, economicamente e giuridicamente indipendenti, in base al quale una parte concede la disponibilità all’altra, verso corrispettivo, di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, de-
nominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti di autore, know-how, brevetti, assistenza o consulenza tecnica e commerciale, inserendo l’affiliato in un sistema costituito da una pluralità di affiliati distribuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare determinati beni o servizi” (art. 1, legge 6 maggio 2004, n. 129).

Perchè mi conviene diventare franchisee?

  • Diventa imprenditore con un rischio calcolato
  • È amministratore di se stesso con un’attività indipendente, imparando magari un nuovo mestiere.

Quanto mi serve per partire?

Per aprire un’attività, anche in franchising, serve un capitale iniziale, meglio se già nella disponibilità dell’affiliato per evitare i costi legati alla richiesta di un prestito. L’investimento iniziale indicato dal franchising, però, non esaurisce le somme necessarie prima dell’apertura e nei mesi successivi. Il capitale deve coprire tutti gli investimenti richiesti dal franchisor: diritti di entrata, spese per l’arredamento, prima fornitura, contributo per formazione, etc. E poi, le spese legate alla pre-apertura: acquisto o affitto del locale, utenze, costituzione società, hardware e software, etc. Dall’apertura, si dovranno contemplare costi per il personale o per la gestione in generale.

Quanto spendo, quanto guadagno?
Il secondo passo è la redazione di un conto economico, l’elenco di tutti i ricavi e tutte le spese, anno per anno e mese per mese. Serve avere un orizzonte temporale di 3-5 anni, anche se molto dipende dal settore di attività dell’affiliato: alcuni richiedono almeno 2- 3 anni per generare utili interessanti ma magari non ancora sufficienti per coprire gli investimenti. Due le questioni da considerare:

  • Determinazione ipotetica dei ricavi: sarà l’affiliante a dare un’ indicazione di massima all’affiliato circa l’incasso medio annuale ottenuto in base alle statistiche di vendita degli altri franchisee. Un dato di partenza da perfezionare secondo le condizioni locali (concorrenza, location, etc.).
  • Determinazione ipotetica dei costi (fissi e variabili): ci saranno costi tipici di gestione che il franchisor dovrebbe possedere e comunicare all’affiliato e costi tipicamente locali (mercato immobiliare). Inoltre, alcuni costi sono variabili nel senso che cambiano, per esempio, al variare del fatturato, dalle royalties ai contributi pubblicitari.

Il primo conto economico sarà previsionale: mentre i costi sono tutto sommato identificabili, i ricavi sono una vera e propria incognita perché il franchisor farà facilmente riferimento a una media tra gli affiliati già operativi, che, tra l’altro, non può considerare la specifica realtà locale del nuovo franchisee. Potrà essere utile anche chiedere di avere stime di incasso nelle fasi di avvio dell’attività. Poi, tra i costi va considerato – si spera – il compenso che il franchisee ricava per se stesso e, non meno importante, la voce “Iva e tasse”: per fare un esempio, l’affiliato paga subito l’Iva sulla prima fornitura e in un secondo momento la recupera. Questo significa e sottolinea, ancor di più, la necessità di avere una liquidità per gestire un’impresa.

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La psicologia positiva e il contesto lavorativo

A differenza della psicologia del lavoro che nasce nell’azienda per l’azienda, la psicologia positiva è un metodo scientifico che si sviluppa autonomamente per colmare un vuoto teorico e metodologico di ricerca relativa a “cosa rende felici le persone”.

5 caratteristiche della psicologia positiva

  1. La Psicologia Positiva si centra in quello che hai per migliorare il benessere psicologico.
  2. La Psicologia Positiva non nega le emozioni negative né ti obbliga a essere felice.
  3. La Psicologia Positiva si basa sul metodo scientifico.
  4. Sono state scoperte delle variabili che influiscono sul tuo benessere: punti di forza equilibrati, senso vitale, raggiungimento degli obiettivi, relazioni, emozioni positive, ecc.
  5. Conoscere i tuoi punti di forza è una chiave per incrementare il benessere.

Psicologia positiva e mondo del lavoro

Sono molte le ricerche che, rivolte al benessere sul posto di lavoro, confermano la necessità di far sentire “felici” le persone. Achor Shawn, uno dei principali esperti mondiali di potenziale umano, ha scoperto che la qualità della vita ed il benessere mentale degli impiegati contribuiscono ad aumentare la produttività delle aziende fino al 31% ed una ricerca dell’Università di Warwich, in Gran Bretagna, ha potuto constatare che le persone felici al lavoro, aumentano la produttività del 12%.

Oggi, attraverso la Psicologia Positiva e le ricerche scientifiche ad essa relative, è possibile potenziare il benessere personale e professionale, le performance dei lavoratori attraverso lo sviluppo delle risorse, potenzialità, il capitale psicologico e la prevenzione dei rischi psico-sociali. In pratica, la Psicologia Positiva ci permette di creare Contesti Positivi, all’interno degli ambienti di lavoro Sviluppando un atteggiamento positivo attraverso le proprie risorse e potenzialità di carattere. In poche parole è un cambio di paradigma: Potenziare quello che funziona per arrivare all’eccellenza. Durante la formazione di Psicologia Positiva non si domanda: cos’è che non va. Ci si focalizza su quello che funziona. E’ importante eliminare i problemi, ma non basta per arrivare all’eccellenza. Il funzionamento ottimale nasce quando identifichiamo e valorizziamo i talenti e le potenzialità delle persone. Attraverso un percorso formativo di Psicologia Positiva, si può lavorare ed incrementare questi punti professionali:

  • Creare contesti lavorativi positivi;
  • Incrementare il benessere al lavoro;
  • Migliorare le prestazioni;
  • Ridurre il burn-out;
  • Riformulare la leadership;

Creare contesti lavorativi positivi attraverso le proprie potenzialità acquisire conoscenze pratiche su:

  • Come mantenere l’ottimismo e l’atteggiamento positivo in ambienti ad alte richieste prestazionali.
  • Come costruire relazioni costruttive: abilità comunicative e team building.
  • Come trasformare lo stress lavorativo in esperienze di flow.
  • Come utilizzare le potenzialità personali per migliorare le prestazioni professionali ed un equilibrio nella sfera di vita personale.
  • Applicazione dei contenuti in forma di esercitazioni esperienziali di gruppo e individuali
  • Creazioni e sviluppo di un piano d’azione individuale.

* Articolo a cura di Giansandro Ogliari e tratto da AZ Franchising Magazine Giugno-Luglio 2020; ©VIETATA LA RIPRODUZIONE